I nostri territori, abitati da secoli, sono uno scrigno prezioso di tesori.
Attraverso una lenta metamorfosi il paesaggio ha mutato forma accogliendo l’azione dell’uomo e della natura. Antiche vie di comunicazione, santuari e città, come una costellazione di sacralità che disegnano la volta celeste sulla terra.
L’acqua con le sue sorgenti, il fuoco attraverso gli episodi vulcanici e la forma stessa dei luoghi, hanno determinato il disegno e le ragioni stesse delle citte, determinando relazioni, significati, funzioni, intorno ai tanti giacimenti produttivi, come quelli agricoli, minerari e faunistici. Dentro questo palinsesto si sono costituite le città come Hybla Major (Paternò) e Inessa (Santa Maria di Licodia).
Le evidenze archeologiche rimangono necessariamente lo strumento ultimo di verifica ma preliminarmente è necessario approfondire la forma del paesaggio attraverso strumenti di analisi che afferiscono ad altre discipline scientifiche: geografia, antropologia, geologia, teologia, storia della città e del territorio. Solo l’azione combinata di questi fattori può restituire un ambito di ricerca più coerente e affidabile alla stessa archeologia sul campo. Senza quest’approccio, il rischio è di esplorare – sul piano archeologico – in modo approssimativo e peggio ancora incastrati alle pochissime certezze storiografiche frutto della letteratura storia e mitologica (Jean Bèrard, 1957).
Negli ultimi decenni, si sono sovrapposte innumerevoli teorie (proprio in questa parte di territorio a sud oveste dell’Etna) sul rapporto tra i toponimi (antico e moderno) e i luoghi. Si sono accumulate ipotesi – spesso presentate come risolutive e definitive – non sufficientemente supportate dall’evidenza scientifica (scavi e ricerche) che non hanno fatto altro che curvare ideologicamente i pochi dati certi disponibili, oscurando quanto emerso nelle campagne di scavo e nei ritrovamenti occasionali prima degli anni ’80. A conferma di tutto ciò basterebbe fare una ricognizione nei musei di Siracusa, Adrano, Catania, Parigi e Berlino per rendersi conto di come abbiamo rinunciato a indagare nel nostro passato, determinando una certa confusione e un imbarazzante isolamento culturale: ci siamo accontentati di radicare le nostre origini al Medioevo (Cristiano) nobilitando sul piano temporale tutto quello che sta dopo i Normanni dell’XI secolo.
La storiografia, almeno quella più diffusa e riconosciuta in questa parte dell’Etna, ha idealizzato e ideologizzato i Normanni, come per altri contesti, le fondazioni greche dell’VIII secolo a.C. lungo le coste orientali della Sicilia. Non ci riferiamo certamente al contesto scientifico istituzionale – che nel frattempo continua a studiare e ricercare, secondo precise priorità e direzioni – ma a quelle forme di approfondimento localistico che finiscono per restare imbottigliate in paradigmi ormai obsoleti.
Questo territorio (Hybla Major e Inessa) è stato poco indagato – almeno recentemente – e meriterebbe più attenzioni, dalle istituzioni preposte a questi compiti: università, soprintendenze.
Ma la carenza di fondi e di personale impone delle priorità che penalizzano drammaticamente la ricerca. Non si tratta solo di avviare campagne di scavo più diffuse sulle due acropoli e sui territori adiacenti ma di agevolare il coinvolgimento delle associazioni e delle università straniere come avviene di molti territori siciliani.
Il rischio non è solo di perdere porzioni significative della nostra storia ma di compromettere per sempre le poche tracce presenti. Molte delle strategie di sviluppo dei territori interessati potrebbero cambiare grazie alla consapevolezza dell’esistenza di questo patrimonio sommerso. Persino alcuni lavori di trasformazione – pubblici e privati – stanno stravolgendo le emergenze archeologiche nel silenzio più assordante.
L’azione più urgente è, non solo quella di avviare gli scavi archeologici nelle due acropoli ma di sviluppare progetti di consapevolezza collettiva per ricurvare la percezione comune del paesaggio. La Civita sotto Santa Maria di Licodia, San Marco alla Salinelle, l’Acropoli di Hybla Major, le contrade Patellina, Santa Maria la Scala, Tre Fontane tanto per citarne alcune e la rete di collegamento tra queste e gli insediamenti più prossimi devo essere l’oggetto di una nuova campagna di studi e di ricerche. Un lavoro che non può cullarsi di quanto già conosciamo (poco) ma che deve andare oltre e in profondità. Questo significherebbe ridare a questo territorio non solo una nuova identità ma una nuova ragione per rilanciare un’economia sostenibile e produttiva. Questo dovremmo chiedere alla Politica.
Hybla Geleatis (Paternò)
Hybla Gereatis (in greco: Ὕβλα ἡ Γελεᾶτις), era un’antica città della Sicilia, situata sul versante meridionale dell’Etna, non lontano dal fiume Symaethus, nel moderno comune di Paternò. C’erano almeno tre (e forse anche cinque) città chiamate “Hybla” negli antichi resoconti della Sicilia che sono spesso confuse tra loro e che a volte è molto difficile distinguere.
Hybla Gereatis è stata descritta come la più grande e notevole delle città siciliane chiamata Hybla, quindi equiparata a Hybla Major o Magna.
Pausania (nel cui tempo aveva cessato di essere una città indipendente) descrisse la città come situata nel territorio di Catana (moderna Catania). Allo stesso modo, lo troviamo notato da Tucidide come un posto tra Catana e Centuripa (moderno Centuripe), così che gli Ateniesi, al loro ritorno da una spedizione in quest’ultima città, devastarono i campi di grano degli Inessaeani e Hyblaeani. Era chiaramente una città siciliana; e quindi, in un periodo precedente, è menzionato tra le altre città di quella gente all’interno dell’isola che Ducetius cercava di unire in una lega comune, una misura a cui i soli Hyblaeani si rifiutarono di aderire. È abbastanza chiaro che, in tutti i passaggi precedenti, che il Hybla si riferisce al Hybla etnese: e sembra probabile che la città di Hybla, che è stata attaccata dagli ateniesi subito dopo il loro sbarco in Sicilia (Thuc. Vi. 62), ma senza successo, non era altroche Hybla Geleatis (Ὕβλα ἡ Γελεᾶτις) come descritto da Tucidide.
Durante la Seconda Guerra Punica, Livio menziona Hybla come una delle città che furono indotte a ribellarsi ai Cartaginesi nel 211 a.C., ma furono rapidamente recuperate dal pretore romano Marcus Cornelius Dolabella. Ai tempi di Cicerone gli Hyblenses (evidentemente il popolo della città eteana) appaiono come una considerevole comunità municipale, con un territorio fertile di grano: e Hybla è uno dei pochi luoghi all’interno della Sicilia che Pomponius Mela ritiene degno di nota. Hybla Gereatis viene anche menzionata da Plinio, che lo calcola tra i populi stipendiarii dell’isola, come anche Tolomeo. Quindi è strano che Pausania sembri parlarne come completamente desolato a suo tempo. Il passaggio, tuttavia, è del tutto così confuso che è molto difficile dire di quale Hybla stia parlando. Non ne troviamo più tardi notizia, sebbene un’iscrizione dei tempi cristiani trovata a Catana sembra riferirsi a Hybla come ancora esistente sotto il suo antico nome.
Il sito, come suggerito da Cluverius, dovrebbe riferisi a Paternò (a circa 20 km da Catania), e deriva una forte conferma dalla scoperta in quella città di un altare dedicato a Veneri Victrici Hyblensi. C’è molto confusione tra questa città con quella di Aetna.