Sembra finita l’ennesima emergenza all’aeroporto Fontanarossa di Catania, dopo l’incendio (dovuto alla stampante?) che ha causato forti disagi ai viaggiatori, forse anche troppi e nel momento sbagliato; dopo le polemiche e lo scivolamento verso il basso delle responsabilità, ma cosi in basso che alla fine a pagare sarà la stampante oppure il suo cavetto. Dopo tutto questo, l’Etna ha voluto dire la sua. Come sempre, come al solito, le sue paturnie piroclastiche, quelle del più alto vulcano d’Europa, patrimonio dell’Unesco, hanno condizionato l’attività dello scalo catanese.
Ancora dirottamenti verso Comiso, Palermo, Trapani e Lamezia Terme. I viaggi della speranza. Ancora disagi per i tanti viaggiatori dell’aria che si sono visti sballottolare a destra e a manca con disagi incalcolabili sull’organizzazione delle loro vite. Ritardi, cancellazioni, traslazione dei voli e soprattutto l’enorme confusione proprio durante le feria di agosto.
Ma la cenere dell’Etna non è una novità, non è la prima volta, anzi è una costante nel tempo. Eppure nei primi anni ’20 del secolo scorso fu deciso di realizzare proprio in quel lembo di terra l’aerostazione – oggi dedicata a Vincenzo Bellini – pur sapendo che il vulcano avrebbe determinato diverse criticità, ma non solo, oggi siamo nelle condizioni di prevedere anche altre vulnerabilità e limitazioni. Senza voler dimenticare la necessità – oggi impellente – di allungamento della pista e di raddoppio della stessa; ritardate e impedite dalle condizioni dell’ambiente circostante (mare, ferrovia, autostrade). Tutte criticità che sono evidenti ormai da anni.
Sulla cenere dell’Etna nulla di nuovo sotto il sole. Catania, rappresenta già con la frase famosa sulla ‘Porta Garibaldi’ la risposta a tutte le domande: “Melior de cinere surgo” (Risorgo dalle mie ceneri ancor più bella). Tra eruzioni laviche, pliniane e terremoti, la città non si è mai fatta mancare nulla, ma sempre è risorta. Nel 122 a.C. un’eruzione in modalità “Vesuvio” ha bucherellato tutti i tetti della città al punto che le autorità romane hanno esentato per dieci anni la tassazione alla popolazione. E alla fine del ‘600 l’azione combinata eruzione-terremoto hanno fatto il resto. Tutto questo per dire che l’area è fragile e bella. Critica e maestosa. Non è un caso che Catania è una città ricca di storia e tradizioni. Ma quell’aeroporto sotto scacco (Etna) e con tante difficoltà di espansione impone una riflessione. E proprio queste considerazioni avranno ispirato – alla fine degli anni ’90 – l’idea di spostare lo scalo nell’area dell’ex aeroporto militare di Gerbini, dismesso dopo la fine della seconda guerra mondiale nel ’45 e costruito negli anni ’30. Oggi ne dobbiamo riparlare?
L’idea era affascinante e forse lo è ancora; certamente questo possibile scalo internazionale si trova lontano dalle linee prevalenti di eruzione ma nello stesso tempo adiacente alla dorsale autostradale e ferroviaria che collega tutta la Sicilia e a due passi dal porto di Catania e agli snodi di collegamento tra il sud, il nord e l’ovest dell’Isola. In pratica è più baricentrico rispetto al sistema “Sicilia”, sul piano della logistica e dell’accessibilità; non compresso dalle urbanizzazioni e realizzabile nella sua dimensione più ottimale.
Un aeroporto che rappresenterebbe lo scalo strategico ideale per ricollocare la Sicilia al centro del Mediterraneo. Collocato in un’area a basso rischio sismico, aderente al sistema di mobilità regionale e internodale, con vista verso l’Etna ma priva del rischio cenere. Se la Sicilia vuole aspirare a diventare il più importante Hub del Mediterraneo deve cominciare (o ricominciare) a pensare a un nuovo modello di mobilità. Non si può ragionare in termini localistici e parziali. Oggi esistono due dorsali nell’isola, quella che da levante a ponente attraversa il centro della Sicilia – da Catania a Palermo – e quella che da Malta collega a Reggio Calabria, passando per Capo Passero, Siracusa, Augusta, Catania, Taormina e Messina. Coerentemente a questa armatura geografica, l’ex aeroporto militare di Gerbini è compatibile al fine di localizzare il nuovo aeroporto internazionale siciliano. Investire nelle infrastrutture della mobilità – sempre in chiave sistemica – è, adesso, più che mai indispensabile.
Se vogliamo essere la porta del Mediterraneo, il punto di partenza del Corridoio 1 verso il nord Europa, l’area di transito della via della seta e il riferimento principale per i mercati del nord africa, dobbiamo abbandonare certi pregiudizi, valutare con lungimiranza le possibili strategie e rendere soprattutto accessibili i tanti patrimoni artistici, culturali, naturalistici e produttivi di quest’isola. Risolvere il conflitto tra aree interne e di costa, riattivare le antiche direttrici interne definendo un quadro organico della nuova mobilità, interconnettendo strade, autostrade, ferrovie, porti e aeroporti.
Esistono anche altre ipotesi, ed è giusto citarle, come quelle di utilizzare l’aeroporto di Comiso ma queste ci sembrano più incoerenti rispetto all’armatura regionale proposta, rispetto alle necessità di essere dentro un perimetro internodale di sistema, affinchè – tra i vari sistemi di mobilità – non ci siano tempi di percorrenza superiori ai venti-trenta minuti (porto, aeroporto, ferrovia, nodi autostradali).
L’alternativa, per la cenere, è quella di lavorare su possibili tecnologie di mitigazione, magari gestendo lo scalo con più attenzione rispetto alla sicurezza globale (comprese le stampanti e i cavetti) e alle strategie di sviluppo.
La Sicilia, più che Catania, ha bisogno di maggiore qualità dei servizi di mobilità che guardino al futuro, ai nuovi scenari geopolitici, alla necessità di modernità e innovazione nel rispetto del patrimonio naturale, storico e artistico di quest’isola che ha il dovere di custodire.
questa sembra un po’ la storia del Ponte sullo Stretto, non abbiamo le infrastrutture di base ma facciamo il ponte. Per due o tre giorni di chiusura in un anno causa cenere si pensa di spendere milioni di euro per un nuovo aeroporto, non è bastato lo scandalo di Comiso, uno scalo per una decina di voli al giorni? L’idea più rivoluzionaria che possono avere i siciliani è quella di conservare e consolidare l’esistente, basta altro cemento e altre cattedrali nel deserto…