Ci siamo. Ormai, manca proprio poco. Dopo San Placido tocca a Santa Barbara e poi a Santa Lucia.
Così fino a Natale, poi l’Epifania – e passando dal carnevale – fino alla santa Pasqua. In effetti potremmo andare oltre, ma per adesso fermiamoci qui. La stagione delle feste di paese è cominciata e sta per vivere uno dei momenti più esaltanti. Stiamo parlando della più classica delle feste di paese. La festa della Santa Patrona.
Si è arrivata Santa Barbara (già si sente nell’aria) e il 4 dicembre la città è a festa. Una festa di colori e di luci; fatta di processioni e devozione. Ricca di fuochi di artificio e delle tante bancarelle che rendono gioiose le strade. Dolci, giocattoli, magie e tanto altro. Un arcobaleno di luci e colori che rendono viva la strada. E poi la musica, le luminarie – che sono il segno più tangibile della festa. I ricordi delle famiglie, che si raccolgono attorno alla tavola, per ringraziare e propiziare l’intercessione della Santa “Amata”.
Personalmente, la festa era il momento in cui ci si vedeva con i parenti di San Placido per tradizione e per affetto. Era il momento in cui lo zio Alfio – uomo d’altri tempi – ti ricordava che il “disparo” (termine spagnolo con cui descriviamo i fuochi di mezzogiorno a San’Antonio) della Santa non era cosi intenso come quello di San Placido e si accendeva una divertente disputa, che solo le lasagne di mia madre riusciva a mitigare.
Ma le sacre feste, scandiscono il nostro calendario. Segnano il passare delle stagioni, ci ricordano le semine, i raccolti, gli antenati e tanto altro. Il Venerdì Santo, per esempio. Il Corpus Domini e tante altre. Un patrimonio etnografico inestimabile.
C’è prima di tutto la dimensione religiosa. L’intima atmosfera che solo chi vive dall’interno la commemorazione della Santa, può comprendere interamente. Ogni tanto, mi basta osservare l’amico Giuseppe Mirenda per comprendere il mistero e la liturgia di una devozione, completa e partecipata. Ma non è il solo, questo sguardo si registra in tanti uomini e donne che vivono la sacralità della festa e la dimensione liturgica.
Solo religiosità? Solo devozione? C’è altro. Un patrimonio antropologico che segna, plasma e riconfigura la stessa forma della città. Se la festa è il testo narrativo della devozione, la città è il teatro dove essa si rappresenta. Una devozione urbana che “inventa” percorsi e scenografie lungo tracciati storici, vicino i luoghi del potere terreno, a partire dalla fabbrica sacre. Dalle processioni greche alle feste barocche. E sono proprio quest’ultime che permangono nella nostra memoria. La cultura barocca pervade la festa – che non è la festa del principe – ma una condivisione collettiva di una devozione che deve essere “spettacolare”. Persuadere, stupire, incantare. Sono questi i motivi che governano la parte più esteriore dell’evento sacro. Non si potrebbero capire, se non si comprende la matrice culturale. Come nelle istallazioni barocche, trova un posto d’onore la “luminaria” e il “fuoco di artificio” a servizio dello stupore e a cornice di un grande teatro che è la città stessa. Tutto ruota intorno alla spettacolarizzazione della devozione e la città appare invasa di luce nuova.
Il degrado dello spazio scenografico, la decadenza delle case – che in centro storico – sono spesso abbandonate, sono il limite di questo teatrale spettacolo. Mi è capitato – qualche anno fa – di guidare un progetto di ricerca fotografica (Pasquam, percorsi urbani della memoria di G.Barbagiovanni) e riscontrare che oltre alla bellezza dei personaggi, delle figure e delle macchine barocche (protagonisti della processione) – lo sfondo era spesso sporco, decadente, metastico. La bellezza dei luoghi, delle prospettive urbane e degli sfondi era stata violentata dall’incuria dell’uomo. Rileggendo il contributo alla ricerca di cui sopra, (che approfondiva questioni urbanistiche e antropologiche) mi rendo conto della necessità di ridisegnare il rapporto tra le processioni sacre e l’immagine della città, con un approccio più cinico sul piano dell’attrattività turistica.
In questa sede non stiamo disquisendo della dimensione religiosa ma dell’opportunità di riconfigurare un rapporto tra il patrimonio antropologico della città e la capacità di governarlo.
Una visione moderna del problema non può prescindere dalla creazione di una “fondazione” che gestisce il patrimonio etnoantropologico (dimensione laica) creando un palinsesto annuale di eventi correlati e funzionali a valorizzare queste risorse culturali. Si tratta di programmare, pianificare e strutturare un organismo che metta fine all’improvvisazione. Le feste sacre, gli appuntamenti culturali, il patrimonio storico, la città – con le sue teatralità urbane – i giacimenti (musei, biblioteche ecc.) e gli uomini illustri sono il patrimonio da gestire.
Un programma di rete che si proietti sul web e che generi economia e sviluppo. Nel 2007 fui testimone di una progettualità denominata “parco letterario pervirgilium veneris” in collaborazione tra il comune, la chiesa e l’associazionismo che rendeva sistemico e utile il patrimonio artistico-letterario, a servizio della rigenerazione della città – intesa in tutte le sue possibili declinazioni. La modernità non è una malattia a cui resistere e le esperienze di altre città non sono il peccato da evitare. Aprirsi alla modernità significa anche “riconfigurare” e in questo caso significa “usare” con intelligenza il giacimento culturale che ci è stato consegnato dalla storia.
Se non vogliamo delegare un centro commerciale a sostituirsi a noi, per capacità organizzativa e sensibilità. Ma per fare bene è necessario saper fare. Le sacre feste sono – insieme a tante altre risorse: artisti, letterati, uomini di scienze; sia della memoria che contemporanei – il terreno di coltura su cui impiantare un nuovo seme.
La rinascita della città, quella vera, lontana dai fantasmi e coraggiosa. Viva Santa Barbara.