«Siamo persone prima che giudici. E io, come magistrato ma soprattutto come uomo, sento di aver fallito adesso che una ragazza di 27 anni di cui mi occupavo dal 2016, si è tolta la vita in carcere».
Così, in un’intervista al `Corriere della Sera´, Vincenzo Semeraro, il giudice di Sorveglianza del Tribunale di Verona che ha scritto una lettera che è stata letta ieri in chiesa durante i funerali di Donatella Hodo, «giovane che lottava contro problemi di dipendenza da stupefacenti e una grande fragilità. Usciva e rientrava in cella di continuo per piccoli furti legati alla droga – si legge – si è lasciata morire la notte del 2 agosto inalando del gas dal fornelletto che aveva in cella».
«Da quando Donatella ha attuato il suo tragico gesto, continuo a pormi mille interrogativi – prosegue il magistrato – Dove ho sbagliato, in che cosa? Ogni volta che una persona detenuta in carcere si toglie la vita, significa che tutto il sistema ha fallito. Nel caso di Donatella, io ero parte del sistema visto che seguivo il suo caso da sei anni. Quindi, come il sistema, anche il sottoscritto ha fallito».
«Cosa avrei potuto fare di più per questa ragazza? Forse l’ultima volta che sono andato a farle visita nel penitenziario, lo scorso giugno, avrei potuto dirle due parole in più? Perché, nonostante la conoscessi da quando aveva 21 anni, non ho captato che il malessere era divenuto per lei così profondo?» si chiede il giudice. Lo scorso marzo la ragazza era stata trasferita in comunità. «Avevo fatto in modo che uscisse dal carcere perché la cella non era il posto idoneo per lei – spiega Semeraro – Purtroppo poi era scappata, tornando quindi lì. A breve era in arrivo per lei una misura alternativa con affidamento terapeutico al Sert, doveva solo pazientare un po’. Purtroppo la sua fragilità ha preso il sopravvento nella solitudine di quella cella».
«Aveva bisogno di un adeguato sostegno psicologico, un servizio di supporto che l’intero sistema non riesce a garantire non solo nel carcere di Verona ma in tutti i penitenziari d’Italia. Le strutture detentive non sono a misura di donna, le detenute vanno approcciate in modo totalmente diverso, hanno un’emotività che non ha nulla a che fare con quella maschile. Vanno seguite in modo specifico e del tutto peculiare – sottolinea il magistrato che dopo i funerali ha voluto incontrare privatamente il papà di Donatella.
«Ci siamo abbracciati, piangevamo entrambi. Tutti e due ci sentiamo in colpa, io come giudice, lui come genitore. Ciascuno ha detto all’altro di farsi forza, è stato toccante. Ma il momento più lacerante è stato quando il papà di Donatella mi ha ringraziato, perché sua figlia gli parlava di me come di un secondo padre. Da brividi».