Il crollo del cornicione, nella chiesa di Santa Croce a Firenze e la morte del turista spagnolo, accendono, i riflettori su alcune questioni che riguardano il patrimonio storico e artistico. La vulnerabilità sismica, l’abbandono delle pratiche manutentive – anche per mancanza di risorse – e un quadro normativo che spesso non facilita le azioni di recupero, sono le probabili concause, di quel degrado generale, che avvilisce il nostro patrimonio culturale. La città storica – intesa come atlante di monumenti, di tessuti urbani ricchi di memoria, di un patrimonio immobiliare minore, che perde ogni giorno il suo valore – si ammala sempre più. Il degrado si manifesta con l’abbandono, con l’intromissione di pratiche “fai da te” – nella gestione degli interventi – che negano la cultura della pianificazione e del progetto. Nel 2000, la ormai mitica circolare 3 della Regione Sicilia, aveva tracciato un percorso normativo che avrebbe semplificato l’azione di governo e la recente L.R. 13/15 ha tentato di rilanciare questo orientamento con risultati che oggi sembrano fragili e non esportabili.
Ovviamente c’è da fare un distinguo. Una cosa è il patrimonio monumentale e artistico (chiese, abbazie, teatri, aree archeologiche) e una cosa è l’immenso scenario che offre la città, ricca di opportunità di riconversione e rigenerazione. Mi chiedo spesso – dando per scontato che abbiamo il dovere di conservare e tutelare il patrimonio di pregio – il perché e la necessità di recuperare il centro storico. Non si tratta solo di conservare le tracce minori ma di cogliere l’opportunità di ri-usare il patrimonio invece di usare nuovi suoli – che vengono strappati alla permeabilità (verde agricolo, parchi, ecc.) con conseguenze devastanti sul piano dei cambiamenti climatici.
In questo contesto – duplice e complesso – si inquadra la necessità di “agire” presto e bene. Seguendo tre linee operative. Individuare le cose da conservare rispetto a quelle da trasformare. Quindi riconoscere. Definire l’armatura delle priorità e delle azioni possibili, rispetto alla disponibilità delle risorse. Quindi pianificare. Agire con azioni di premialità, buone pratiche e semplificazioni per sostenere capillarmente l’iniziativa privata. Quindi fare. Quanto sopra è parte di una letteratura consolidata (afferenti alle discipline: urbanistica, architettura e restauro) di cui si parla ormai da troppo, ma non si capisce perché rimane lettera morta. La conseguenza è il continuo degrado della città storica.
Qualche anno fa, la fondazione dell’Ordine degli Architetti PPC di Catania ha esplorato il tema del recupero del patrimonio esistente, attraverso il workshop “Aretè, abitare le rovine” e il gruppo di ricerca officina 21, oltre a collaborare alla definizione del palinsesto culturale e tematico del workshop, ha rilanciato – approfondendo – il rapporto tra emergenza e vulnerabilità in centro storico e i dispositivi effimeri delle opere provvisionali, con l’università di Losanna.
La definizione di nuove tecnologie (a basso costo e semplificate), la centralità del progetto (validato da un organismo amministrativo credibile e veloce) e la consapevolezza che non è possibile imbavagliare e ingessare parti significative di città senza rinunciare alla sicurezza, sono tra le conclusioni di quella ricerca.
Una forma di resilienza che gli ordini professionali, le associazioni e l’imprenditoria misero in campo per l collettività.
Ovviamente questi concetti, sono condivisi da tanti ma osteggiati da pochi, che fanno tra l’altro resistenza cultuale all’innovazione. Si nascondono nei meandri delle vecchi stanze, esercitando un veto di principio, che spesso nasconde l’impossibilità di governare il progetto di trasformazione. Spesso ho sentito “non avendo certezza sul da fare, preferisco non fare”; avendo certezza su quanto fatto, preferisco continuare a farlo”.
Per certi versi è persino comprensibile ma oggi è venuto il momento di scardinare questo paradigma, perché la città muore lentamente.
A me sembra che sia venuto il momento, che ogni collettività, individui alcuni casi studio su cui monitorare, indirizzare e sperimentare al fine di creare un manuale di buone pratiche – condiviso tra progettisti e validatori – che attivi la rigenerazione dello spazio urbano. A questo, deve essere collegato un processo di rigenerazione del tessuto sociale, commerciale e produttivo, a partire dall’armatura della mobilità pubblica e dalla necessità di sicurezza (in tutti i sensi). Ultimo, ma non per questo meno importante, è il tema della riforestazione – anche nella città storica – quindi la necessità di introdurre spazi collettivi – anche sottratti ai ruderi improduttivi e strategici – in cui gli alberi trovino la giusta dimora. Ma bisogna anche introdurre nuove funzioni nel tessuto urbano che siano innovative, smart, inclusive e produttive per diventare incubatori di rigenerazione (l’esempio di farm cultural park di favara a cura del notaio Bartoli, mi sembra congruente).
Riconoscere, pianificare e agire. Ma nel solco della qualità dei processi e della loro coerenza con gli obiettivi condivisi. Si tratta di fare città, di pensare al futuro, proteggendo le nostre radici profonde. Realmente e con efficacia. Senza teoremi complessi, dietrologie e affarismi. Per il Bene della città e non per la città “bene”.
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