Un pomeriggio dopo la scuola, dopo le tante ore passate in aula a studiare sui libri di carta. Prima, seconda, terza, fino all’ultima ora, quella che ti sfianca la mente e divora le forze.
Il viaggio sull’autobus, le mascherine che tolgono l’aria e lo zaino che sembra sempre più pesante. Ogni giorno, tutti i giorni fino alla fine. «Prof, posso uscire? Luca, interrogato». Una liturgia seriale senza fine. Gli sguardi sommessi e circoscritti, la voce qualche volta pesante e gracchiante, gerarchie consolidate e scontate.
Anche questo è la scuola ma dopo due anni di protocolli covid da rispettare, capita di poter stare tutti insieme a festeggiare la “quasi” fine dell’anno scolastico all’aria aperta, tra gelsomini e limoni, tra cipressi e querce, inebriati dalla menta, dal timo, dal rosmarino; incantati dal profumo che viene da dietro una piccola case di campagna, dove tutti preparano la carne, sulla carbonella accesa. I pomodori, l’olio d’oliva, il pane abbrustolito per fare le bruschette e il via vai di tutti per apparecchiare la tavola sotto la pergola, al riparo dal sole. Una luce attraversa gli alberi, ruscellata dalle foglie, per raggiungere i volti rotondi e sorridenti di tutti: studenti, docenti e parenti vari. Una festa come quelle dei paese per la santa patrona.
La palla, il gavettone, la rete bucata della porta, il rudere con il cielo dentro e tante piante ovunque fino a perdersi all’orizzonte.
Mille colori, mille profumi, gatti tutt’intorno e persino un cavallo. Da una vecchia cassa, una musica invade l’aria: Raffaella Carrà, Umberto Tozzi, Celeste e Gigi D’Alessio, poi Ana Alcaide, i Coldplay e Bocelli, la Bachada e il Tango. Un suono gracchiante ma tutto a palla. Risate, battute, sorrisi e corse sull’erba fino a sfinirsi.
Da una parte, un cerchio di gente che suona, che canta, che osserva fumando la pipa. Un cerchio di gente che parla, prima tutti insieme, fino a diventare una confessione intima e privata, tra docenti e discenti, senza schemi e gerarchie.
Una liturgia nuova per questi tempi o forse il primo ritorno della normalità. La scuola ha bisogno anche di questo, di informalità, di natura, di staccare la spina. Un momento di semplicità per tutti. Un rilassamento meritato, opposto alle tante feste dopo scuola fatte di discoteche e locali alla moda. Un volersi incontrare dentro la natura, fuori dalle celebrate cattedrali della vita notturna. Senza il vestito della prima comunione, senza la rigidezza del ruolo e del luogo. Una scampagnata con i pantaloni di cotone, la maglietta sgualcita e le scarpe da tennis. Lo sguardo che insegue ogni cosa e i piatti che arrivano ricchi di ogni bene. Tutti intorno alla stessa tavola imbandita vicino alla siepe, sotto l’albero che copre ogni cosa.
Si sente la bellezza di quella gioventù, priva di pregiudizi e orgogliosa dei corpi che la rappresentano.
Il ballo diventa una danza propiziatoria, senza imbarazzi e nascondimenti. Tutti ballano sull’erba bagnata, tutti danzano al ritmo delle tarantelle, tutti si cercano per un sorriso e la vecchia cassa continua a gracchiare. La chitarra lontano, suona canzoni antiche che tutti conoscono misteriosamente, una riconciliazione tra generazioni diverse, quasi una magia che il luogo accoglie con benevolenza. Una dimensione bucolica e sacrale dentro la quale tutti sono discepoli e sacerdoti.
C’è chi balla, chi canta, chi si confida e chi guarda in silenzio questo teatro della vita, contemplando ogni sfumatura. Come attori in scena si muovono incessantemente, correndo da dentro verso fuori e viceversa, dentro un palco immaginifico che la natura ha modellato e l’uomo ha reso regale. La luce che volge al tramonto rende ogni cosa più morbida e modellata. Penetra il ricamo delle foglie e sfiora i volti che sono ancora vivi e luccicanti. La malinconia appartiene a questo momento ma come velo che copre le felicità di tutti, un velo di pizzo damascato.
Rimane la tentazione di voler restare ancora, in quel piccolo paradiso di semplicità.
Ma piano piano tutti vanno via, almeno quelli più adulti, per lasciare il campo a quella forza della natura che sono gli studenti di quella classe che hanno regalato un piccolo momento di felicità. Semplice, informale. Una porzione di scuola che manca all’appello nelle giornate ordinaria e forse per questo più preziosa. Ma sarebbe bello vivere la natura con più frequenza anche nella scuola. Anche le gite scolastiche, che in questi giorni riprendono la loro collocazione ordinaria, sono un segnale di ritorno alla normalità, un’occasione per rendere, almeno per pochi giorni, il rapporto tra discenti e docenti più informale. Serve a tutti, per rigenerarsi e per non prendersi troppo sul serio. La scuola è incontro per crescere. Ma la scuola è fatta di uomini e donne che possono crescere solo se si esercita lo scambio dei saperi, la trasfusione delle esperienze, in ogni direzione e sempre con reciprocità.
La scampagnata di fine anno tra alunni e docenti ha insegnato qualcosa a tutti.
Come non pensare agli sguardi tra le alunne e le loro professoresse, sguardi di complicità e tenerezza, parlando di Dio e della fatica dell’adolescenza? Una magia infinita. Come non riflettere sulla purezza del canto e della danza all’imbrunire? Come non riflettere sui corpi che ballano senza la paura del giudizio estetico, preoccupati solo di essere se stessi. Uno spazio privo di sovrastrutture e gerarchie, forse la scuola ogni tanto ha bisogno pure di questo, per trovare l’essenza del suo ruolo educativo. Luoghi dell’incontro privi di competizione e di schemi. Una scampagnata di fine anno, come tante. Semplice e genuina. Una ricchezza rara che si contrappone ai modelli digitali e mediatici che opprimono parte della nuova gioventù, sprofondata dentro i social, spesso incastrata e condizionata. Il sorriso dei ragazzi dice tutto, fidiamoci di loro ogni tanto. Da lunedì le ultime interrogazioni prima di correre verso l’estate.