All’interno del Parco Archeologico di Segesta è stata inaugurata una mostra di arte contemporanea, curata da MondoMostre e Fondazione Merz, dal titolo “Nella natura come nella mente” che porta opere di Mario Merz, Ignazio Mortellaro e Costas Varotsos.
La mostra è visitabile dal 13 aprile fino al 6 novembre del 2022 e già alla sua apertura è scoppiata una spiacevole polemica. Il noto critico d’arte, Vittorio Sgarbi, attraverso Twitter, ha “bollato” la mostra e in particolare l’opera di Costas Varotsos come una “mostruosità”. Immediata la reazione del presidente della Regione Siciliana che ha condiviso il giudizio dell’autorevole critico e bacchettato l’assessore ai Beni Culturali e all’Identità Siciliana, invitandolo a emanare una circolare d’indirizzo per tutti i parchi archeologici regionali.
Due i punti evidenziati: uniformità nella valutazione di merito sulle proposte culturali che ospita la Regione Siciliana (Parchi Archeologici) e delega alla Direzione Generale Regionale di tale validazione. In pratica, la politica sente la necessità di governare le proposte culturali attraverso un organo centrale che ne determina l’indirizzo. Questa è la sintesi della vicenda esplosa sui social.
Ma il caos di Segesta impone a tutti noi una riflessione sul rapporto tra modernità e memoria, sul significato dell’arte e su tanto altro.
Certamente, il progetto come strumento di governo e la sua validazione sono temi da approfondire. Se diamo per scontato che la mostra è stata sicuramente approvata e finanziata dopo la validazione di un progetto, non ci resta che chiederci se il progetto era sufficientemente esaustivo e comprensibile ma soprattutto se la validazione è stata consapevole. E qui nascono subito due domande: chi si occupa del progetto e con quali strumenti e soprattutto, chi valida? Un tweet? Un solo critico d’arte? Una commissione di esperti (nominati da altri esperti)? La coerenza a un programma culturale complessivo (sempre approvato da qualcuno)? Ha diritto la politica ha determinare gli indirizzi culturali?
La validazione è una cosa seria e complessa e vorrei ricordare il povero Édouard Manet (pittore Impressionista dell’ ‘800) quando non fu ammesso a partecipare al Salon “ufficiale”, ovvero quello dell’Académie des beaux-arts di Parigi e per questo declinare verso il Salon des Refusés (Salone dei Rifiutati), organizzata nel 1863 da Napoleone III. Solo per citare un esempio autorevole di arte, validazione e politica. Ognuno può fare le sue deduzioni personali.
Ma vorrei evidenziare altro, attraverso alcuni interrogativi.
L’artista e la sua opera, in un dato contesto spazio temporale, propone un gesto di libertà o di capriccio? Sollecita la collettività – educandola – oppure impone un suo personale punto di vista che potrebbe configurarsi come manipolazione? Non dobbiamo scandalizzarci ma riflettere sull’arte, gli artisti e il loro compito sociale sena pregiudizi.
Ma continuiamo a farci domande. Un critico, seppur autorevole e accreditato, può determinare con una sola parola – attraverso i social, senza un confronto argomentativo, il destino di un’opera, un evento, ecc. ed etichettarlo come mostruoso o innovativo? Torniamo alla domanda di cui sopra sulla validazione.
Andiamo avanti. La politica propone ideologie o si conforma alle mode preconfezionate dalle lobby dell’arte? Subisce l’ostracismo culturale di un critico o determina una direzione culturale coerente? Tra il Presidente della Regione Siciliana e il suo assessore ai beni culturali c’è comunione d’intenti o convivono forzatamente? Ideologia o conformismo?
Come reagisce la collettività degli artisti, dei critici e la gente comune a questi eventi conflittuali? Indifferenti spettatori o consapevoli fruitori? Certi silenzi sono pesanti come macigni. Complesso di inferiorità o apatia culturale? Può l’indignazione teatrale di un singolo critico d’arte (anche se si chiama Vittorio Sgarbi) persuadere la politica, i critici e gli artisti? Se cosi fosse, bisognerebbe ridimensionare tante figure di spicco in Italia, che in altre occasioni hanno trovato il coraggio di esprimersi e quindi riconoscere il monopolio della validazione dell’arte a un solo uomo. Bastava dirlo.
Sull’opera oggetto del contendere mi permetto di fare alcune considerazioni. «l’opera dello scultore ateniese Costas Varotsos (Spirale 1991-98), ricciolo barocco che proprio nella purezza e dialogo dei materiali (l’armatura di ferro e l’anima di vetro) e nella sua trasparenza, trova una forza energetica di grande impatto, sintesi di una riflessione sulla condizione umana e del suo rapporto ancestrale con l’Universo. La ricerca di Varotsos propone equilibrio tra arte e contesto, cercando la giusta proporzione tra azione umana e potere della natura, stabilendo un vortice di relazioni con la realtà circostante, spazio ideale, senza limiti e frontiere», hanno anticipato gli organizzatori» (www.exibart.com).
Quindi un’opera di Land Art che tenta un dialogo con lo spazio della memoria. E casi di questo tipo ne abbiamo molti in letteratura come quello Christo e la sua land art, come l’installazione sul Lago d’Iseo e altre opere, celebre in tutto il mondo per l‘arte del ‘wrapping’, o dell’impacchettamento di edifici iconici anche storici.
Ma torniamo a Costas Varotsos. Un manufatto artistico che enfatizza l’atto fondativo del tempio, la sua giacitura che determina un paesaggio regolato dallo “scorcio” visuale. Il fotografo (Gianluca Baronchelli) in questo caso ha colto
il senso dell’avvicinamento al tempio greco, che si svela per successivi scorci prospettici. Ma colpisce più di tutto la centralità – nell’opera – del concetto di Mimesis. La spirale ci riporta all’idea di colonna realizzata per rocchi. L’albero ha generato la colonna di pietra, ed essa ha generato la colonna di vetro. Il dispositivo che genera la mimesis è la forma e la sua relazione con la luce. La corteccia del tronco, le scalanature della colonna e il vetro dell’opera, giocano con la luce, ruscellando, rimbalzando, trasformando, riflettendo. Insomma sembra la mimesis della mimesis e la scala – attraverso una diversa angolazione fotografica – sembra minima. Iconologia e iconografia della colonna dorica, distesa sulla terra. Un nuovo rudere del tempio che esprime una certa modernità, un dialogo tra pari.
Resta da chiedersi: un caso mediatico o una prova di forza politica? Il potere della parola e dei personaggismi? Il silenzio intorno è apatia o rassegnazione. Le alchimie della politica regionale hanno un ruolo in questa vicenda?
Auguriamoci che la politica voglia solo esprimere un’ideologia, condivisibile o no.
Ma i protagonisti (tutti) devono assumere un atteggiamento più deciso, più coerente. Restiamo in attesa delle logiche evoluzioni e ci piace pensare che nelle scuole di arte, in questi giorni, si apra il dibattito a partire da questo caso sul significato dell’arte, dell’artista e sul rapporto con la politica, con la collettività e le sue istituzioni. Serve riflettere.