Lentamente, al calar del sole, quando l’azzurro del cielo si fa tèrso e le ombre si allungano, fino a sfiorare il mare lontano.
I monti Erei – verso ponente – accolgono il carro di Apollo nel suo ultimo cammino e la sua luce intensa penetra ogni carne, ogni pietra, ogni santo. Gli odori della città antica si fanno inebrianti, le finestre delle case s’illuminano di una luce fioca, morbida e sommessa.
I fedeli si avviano verso il fulcro dell’evento, venendo da ogni parte della città. Invadono ogni vicolo, ogni piazza, come un fiume in piena, che misteriosamente, scorre verso l’alto, incantati per un rito, che ancora una volta, trova il suo teatro naturale nella parte più alta dell’acropoli di Hybla a Paternò.
Le radici di questa liturgia sono da ricercare nella cultura spagnola che declina in chiave religiosa le feste barocche. Manifestazione di una sacralità che persuade i fedeli per incontrarli nelle viscere della città. Il sacro che abbandona lo spazio della chiesa secolare per penetrare nelle coscienze, invaderne l’anima, stupire le menti e accecare gli sguardi. Una teatralità sacra che diventa cammino, percorso, traccia, segno urbano. Un palinsesto di scorci che si susseguono nel tempo, lungo le strade e che modellano la forma della città attribuendo ad ogni luogo un preciso significato.
Da Demetra a Iside e per transizione Santa Maria Parthenos Un’iconografia ricorrente e ridondante.
La manifestazione, sotto forma femminina, del mistero della morte e della vita. Come per Persefone e Horus, Maria cerca suo figlio Gesù. La ricerca di un figlio che dopo la morte torna alla vita. La metafora della ciclicità della natura, che segna il tempo degli uomini, della terra e del cosmo che tutto circonda. Ma sull’acropoli, dove un tempo si ergeva sulla valle il tempio di Demetra, oggi da quello stesso scrigno trasformato in chiesa e convertito in luogo di cristianità, tutto ha inizio all’imbrunire, mentre il sole nasconde i suoi raggi dietro le pietre lontane.
Ma questo rito è tanto altro, un patto tra gli uomini e la terra, tra i fedeli e il loro Dio. La fine del tempo della morte, l’inizio del tempo della vita. Da ottobre-novembre fino ad oggi la terra conserva il seme, lo sostenta e lo protegge. Fino al tempo di Pasqua, quando coraggiosamente, il seme diventato germoglio, appare alla luce del sole, emerge dalle profondità e conquista il cielo azzurro. Il momento del passaggio, della transizione. I riti del Venerdì Santo sono l’ultimo istante prima della rinascita del grano. Oltre si festeggia Gesù risorto; è la festa della terra e dei suoi contadini.
La processione della Vergine Maria che cerca Gesù morto è l’ultima manifestazione “mascherata” del tempo della morte.
Un fiume di uomini che portano in giro per le vie della città i due simulacri: quello dell’Addolorata e quello di suo figlio morto. Lo fanno seguendo una ritualità arcaica – nascosta a molti – ma che riprende proprio la tradizione del tempo della morte. Sotto i due simulacri, per tradizione familiare si collocano i rappresentanti delle famiglie – una volta dei nobili – che discutono tra loro e guardano verso la folla, con parole che spesso sfiorano il grottesco e l’irriverenza, giocando con metafore e allusioni sessuali. Sembrerebbe un controsenso ma è parte della ritualità come il mascheramento e l’oscillamento della camminata. Una coreutica arcaica fatta di gesti e parole che diventano irriverenti nei confronti della morte e del demonio (Buttitta 2006). Un modo per scacciare il male, basti pensare alla “Diavolata” di Adrano per esempio.
Ma la forma ha il suo valore.
Dal tempio/chiesa di Demetra/Maria esce ogni componente della rappresentazione sacra e scende lungo la scalinata – come fosse la discesa nell’Ade – verso quel paesaggio urbano che un tempo era natura, oggi modellata dall’uomo. La Madonna è vestita di nero e cerca con la luce il figlio. Il percorso segue una logica antica, ripercorre i segni della città, seguendo le direttici verso i quartieri, perché l’intera comunità doveva essere protagonista di questa liturgia. Gli uomini sono i protagonisti di questa processione e un tempo erano ovviamente mascherati, coperti da stoffe e da segni per identificare l’appartenenza alle diverse confraternite. Il percorso avevo lo scopo di convertire, benedire e per questo le sue tappe lambivano fonti, luoghi magici, palazzi nobiliari, le piazze delle streghe e canonici potenti.
In silenzio, accompagnati da una musica tristissima, oggi come ieri si ripete questo rito. Dopo due anni di pandemia e impedimenti, ritorna la voglia di affidarsi a queste allegorie per ricordare. Tutti in attesa della Pasqua, dell’ultima veglia, della resurrezione. Per lasciare il campo alla gente semplice, quella che fatica nei campi, quella che raccoglierà il grano maturo. I contadini che porteranno in processione il Cristo Risorto, il sabato di Pasqua o meglio nella domenica di festa.
Sotto quei simulacri, le conversazioni sono segrete, impenetrabili. Tanto tempo fa ebbi la fortuna di vivere – grazie alla concessione di un amico (Andrea Condorelli) – l’intera liturgia, sotto la Vergine Maria, quella Demetra che oggi riconosco con la ragione dello studio (Placido Bellia 1808), e come un bambino, compresi poco le parole, gli sguardi e gli ammiccamenti. Erano la permanenza di una ritualità che aveva perso le sue ragioni, diventando ritualismo. Oggi è forse necessario ritrovare quelle ragioni antiche, quella ritualità carica di spiritualità e di sostanza. Ritrovare il senso e il significato che lega ogni nostra azione alla “terra”, per comprendere il valore delle parole: “custodisci e coltiva la terra”. Una visione ambientalista che nega gli ambientalismi, un rito che nega i ritualismi. La memoria collettiva che rigenera il patto con il Divino. Queste sono le storie di Sicilia, terra magica e misteriosa, dove la Magna Grecia e la cultura spagnola hanno trovato una sintesi perfetta.
Foto: Salvo Santangelo