Il bisogno si esaudisce, il desiderio mai; non è così quando si parla d’amore. Amore
Sembra essere questo il messaggio che Pippo Delbono, tornato a Catania dal suo pubblico che lo ama, ha voluto consegnare con una pièce originale, a metà tra il recital e il musical.
La nascita di questo spettacolo ce la racconta lo stesso Delbono con la sua voce rauca, sofferente, a fine spettacolo: è dietro gli spettatori, nella postazione della regia tecnica, col suo microfono e ha parlato per tutta la pièce, recitando versi, commentando i momenti musicali, introducendo gli artisti sul palco.
Così è lui che ci racconta di quei giorni tristi, in cui si trovava a Catania per un lavoro teatrale e qui rimase intrappolato dal lockdown in una camera d’albergo. Passeggiava a lungo per le strade deserte della città, meditando e dando vita alla concezione di questo che è un affresco, una rassegna, una carrellata di fotogrammi che cercano di definire, di fissare quel bisogno incolmabile che ogni uomo ha: il bisogno di Amore.
In quei giorni di solitudine e smarrimento è nato un canto d’amore con una sola voce narrante –appunto quella dello stesso autore- che ha trovato molti compagni. Poeti, scrittori di tempi lontani e recenti sono venuti in soccorso di Delbono e gli hanno offerto le loro parole. Sono Carlos Drummond De Andrade, Eugenio De Andrade, Daniel Damásio Ascensão Filipe, Sophia de Mello Breyner Andresen, Jacques Prévert, Reiner Maria Rilke e Florbela Espanca. Queste grandi voci hanno dato corpo alla eterna ricerca dell’uomo. Hanno usato la parola forse più usurata, ma più bella, quella che esprime il nostro più ignoto bisogno.
Alla poesia si affianca la musica, il canto appunto, nell’esibizione dal vivo di artisti che portano il pubblico in un viaggio che parte dal Portogallo col suo struggente fado, arriva in Angola e Capo Verde, sconfina verso il Messico.
Il fado, con la sua saudade, la nostalgia di quel che non è, la fa da padrone nell’esibizione di chitarristi e cantanti; la musica popolare di Capo verde in una canzone d’amore perduto, dolcissima, cantata con grazia e disincanto, i canti tradizionali con la musica ritmata del Messico nelle feste in onore dei morti, la danza istintiva ed euforica di ballerine cariche di una plasticità di corpi che spaccano lo spazio. Corpi nudi, corpi scheletrici e corpi pesanti; corpi che portano nella carne il bisogno di Amore.
Gli artisti sulla scena: Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Margherita Clemente, Ilaria Distante, Aline Frazão, Mario Intruglio, Pedro Jóia, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Miguel Ramos, Pepe Robledo, Grazia Spinella. Ognuno col proprio linguaggio, indagano, esprimono, raccontano “la dittatura dell’Amore”.
Lo spettatore rimane rapito, emozionato da questa atmosfera a volte poetica e pittoresca, a volte psichedelica e potente.
E poi il colore. La scenografia, di Enrico Zucchelli e Mattia Manna, e le luci, di Orlando Bolognesi e Alejandro Zamora, aggiungono un altro splendido linguaggio, con ombre e trasparenze. Il rosso intenso sullo sfondo, interrotto dallo scheletro di un albero (che poi fiorirà, per rappresentare la rinascita) ha un contrafforte nel nero di alcuni momenti più cupi. In altri momenti il bianco spicca, nei costumi, di Elena Giampaoli, e rasserena la visione, portando, insieme a un carosello musicale messicano, una coralità di gioia e leggerezza.
Unico difetto di questo originale spettacolo, l’essere rimasto nella sintassi di una successione di quadri; il collante del tema comune non ha saputo, però, creare un unicum argomentativo. Il ritmo si interrompe con silenzi che bloccano l’emozione. Ci è parso un vero peccato.
La voce narrante, sul finale, attraversa la platea, lentamente, pesantemente, raggiunge il palcoscenico e si accoccola, in posizione fetale, sotto l’albero, come a cercare riposo o a sognare l’Amore.