La guerra è più vicina, più di quanto possiamo credere.
Sfiora terribilmente le nostre vite, invade la nostra quotidianità, scuote e mette a rischio le poche certezze che abbiamo collezionato negli ultimi decenni. Il Covid-19 aveva già fatto la sua parte: paura, impotenza, fragilità, incertezza e fatalismo. La guerra, questa guerra, era l’ultima cosa che ci si aspettava.
Nell’intervista di Umberto De Giovannangeli (12 marzo 2022) per il Riformista, Luciano Canfora, (filologo, storico, saggista) dichiara: “Basta con la favola di buoni e cattivi: questa è una guerra tra Russia e Nato”
La Guerra ha attraversato i secoli, ha devastato le città, stravolto l’umanità, spostato i popoli e impoverito l’uomo. L’arte ha raccontato tutto questo sin dal principio, dallo Stendardo di UR in Mesopotamia alla Colonna Traiana a Roma, dal 3 maggio 1808 di Francisco Goya al Giuramento degli Orazi di Jacques-Louis David, fino alla Guernica di Picasso. L’arte documenta, anticipa, racconta, prefigura, indirizza, spiega le cose, descrive l’idea stessa del divino.
La crudeltà e il cinismo dei bombardamenti, le immagini che bucano lo schermo per irrompere nelle nostre case, le città diventate scheletri fumanti, le fiamme, i boati, le centrali atomiche in bilico – tra l’essere portatrici di vita oppure di morte. Nello stesso tempo, colpisce l’esodo di donne e bambini, verso i confini dell’Ucraina; un esodo drammatico verso la pace che si lascia alle spalle la brutalità della guerra e tanti uomini e donne di questa terra del grano, che accompagnano i loro cari al sicuro per poi tornare di nuovo al fronte. Quello che colpisce è vedere le immagini in cui molti di questi disperati, che fino a poche settimane fa sorridevano felici, adesso vivono nel dramma e nella tristezza. Siamo ancora convinti che è tutto finto e invece nessuno pare voglia veramente la pace.
In questi giorni sono due le opere dell’arte – tra le tante – che rimbalzano nella mente di molti: la Guernica di Pablo Picasso (1937, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia) e il Giuramento degli Orazi di Jacques-Louis David (1784, Museo del Louvre, Parigi). Due opere emblematiche di questo momento drammatico.
La Guernica è il manifesto mondiale della irragionevolezza della guerra.
Un’opera che denuncia la crudeltà e l’inutilità dei conflitti. Picasso ambienta l’opera in uno spazio intimo, come per dichiarare che la guerra non è fuori, lontano da noi ma dentro le nostre case. Ricorre a delle citazioni classiche come quella della Pietà di Michelangelo, dove una madre – esile e giovane – tiene in braccio il figlio morto. Una successione di strazi, angosce, oscurità che solo una fievole luce divina può illuminare. Un popolo ferito, straziato dalle bombe che piovono dal cielo inaspettatamente. La complicità del governo spagnolo; il braccio nazista che sgancia dagli aerei la morte, che penetra fin dentro la carne, spezzando spade, braccia, corpi senza vita e senza colpa. Picasso dipinge una sentenza di condanna e il “cinque febbraio del 2003, Colin Powell (capo delle forze armate USA) parla alle Nazioni Unite, annunciando l’ineluttabilità di una guerra. Alle sue spalle, la riproduzione di Guernica viene censurata da un telo. Un atto iconoclasta funzionale alla propaganda bellica? O la conferma che l’arte può opporsi alla guerra?”
La storia si ripete, la propaganda governativa in Russia impone il nascondimento, per farlo deve oscurare tutto: i social, il web, l’informazione, per costruire una narrazione della guerra che sia più accettabile. Proprio la parola guerra è bandita, si deve parlare di altro. Il Popolo russo deve sapere.
Ma in questi giorni, colpisce la ridondanza di quelle storie di confine, tra i territori della guerra e quelli della pace.
Tra Ucraina e Polonia, Moldava e Romania. Le famiglie di profughi – prevalentemente donne, bambini e anziani – corrono verso la salvezza accompagnati da padri e figli, da fratelli e amici. Dopo, questi ritornano verso le terre devastate a difendere la patria. Sembra proprio la fotografia dell’opera di Jacques-Louis David. Le donne nell’opera sono rassegnate, tristi ma consapevoli della necessità della guerra. Si consolano, si abbracciano, piangono. Da una parte il loro dolore, dall’altra i figli e i mariti che sono pronti a sacrificarsi per l’onore. Quell’onore che è tutto riassunto nelle spade che il padre consegna simbolicamente al centro dello spazio pittorico, punto di convergenza della prospettiva centrale che ha come scenografia un portico con tre archi che riprendono simbolicamente e formalmente i tre gruppi di personaggi dell’opera. Dipinto in epoca monarchica è successivamente usato sul piano ideologico dalla repubblica, diventandone un simbolo di patriottismo. Ma sono le donne ucraine che con il loro orgoglio e la fierezza delle loro parole ci riportano alle donne dell’opera di David. Un monito a quelli che sperano nella resa. Una dichiarazione drammatica ed eroica.
Il racconto pittorico di David, prende spunto dalla “Storia di Roma (I, 24-25) dello storico latino Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.). Il racconto mitologico – al contrario della realtà di oggi – prevedeva di affidare la sorte del conflitto a un duello, tra i fratelli romani Orazi, e tre fratelli albani Curiazi, che degli Orazi erano cugini. Il duello sarebbe stato all’ultimo sangue: chi avesse vinto avrebbe decretato anche la vittoria della propria città. Dei sei duellanti sarebbe poi sopravvissuto un solo uomo, un Orazio”.
Sembra quasi la metafora della guerra tra i cugini russi e quelli ucraini. L’arte ha già raccontato questo istante e l’epilogo non è felice. Non ci sono vincitori ma solo sconfitti. Impariamo dalla Storia, che non serve per esercitare la nostalgia di pochi ma per difendere la felicità di tutti.