La nostra verità: una composizione pittorica simile a una bugia

Ci sono tanti modi per raccontare una storia, un evento, un accadimento. Lo stesso racconto contiene infinite sfumature più o meno evidenti, qualche volta nascoste dalla forma delle parole.

Un racconto è solo una porzione circoscritta di un accadimento, come la foto di un istante scattata da un treno in corsa.

La storia è come un paesaggio culturale, è la selezione ragionata di una porzione di verità visibile e invisibile. Immaginare e raccontare sono azioni che l’uomo esercita continuamente per costruire nuovi scenari narrativi che rimbalzano di bocca in bocca fine a diventare sottili o pesanti, per volare o sprofondare nella memoria collettiva.

Siamo ingannati dalla sensazione che possa esistere una verità, una direzione unica della storia. Siamo illusi – e forse per comodità – che possa esistere un bianco o un nero nelle cose. Una specie di monoteismo percettivo che è spesso smentito dal politeismo delle idee. Ogni verità è quanto meno fatta da due parti: quella della voce narrante e quella della mente ricevente. Ma entrambe sono curvate da infiniti passaggi e da condizionamenti che si stratificano velocemente, determinando infinite varianti della verità (storica).

Quando raccontiamo operiamo una selezione funzionale dell’ambiente fenomenologico.

Cioè raccontiamo solo la parte che riteniamo funzionale per curvare l’evento verso una precisa direzione. Modifichiamo i tempi, trasformiamo i nostri desideri in eventi misurabili, omettiamo parti, inventiamo personaggi: una vera e propria composizione pittorica, un’invenzione artistica che volgarmente chiameremo bugia.

La nostra esperienza corporea nello spazio presente, si evolve verso altri spazi e altri tempi. Inventa, modella, manipola, ridisegna nuove verità. Ovviamente tutto è filtrato dalla nostra profondità culturale, dalle esperienze che abbiamo vissuto, persino dalle paure più nascoste. Maliziosamente o inconsapevolmente abbiamo la necessità di narrare la “nostra” verità illudendoci che diventi la verità di tutti; ma per entropia, la verità cambia forma fino a diventare altro.

Scordiamo, ricordiamo, nascondiamo, presentiamo. Composizione e invenzione. Tutto questo determina una possibile verità.

Forse dovremmo parlare di una probabile verità, intesa come un’ipotesi provvisoria in attesa di nuove configurazioni, tali da rideterminare nuove scelte e nuovi assetti. Un labirinto infinito dove il filo di Arianna (la cultura) potrebbe non bastare, dove il Minotauro (la pazzia) attende la nostra mente fragile, dove Teseo (l’uomo) è chiamato a una prova impossibile: tracciare la storia dei fatti.

Una certezza è data dalla definizione che alcuni psicologi danno della realtà fenomenologica: è solo la ricostruzione virtuale e personale della nostra mente. In pratica percepiamo ciò che il nostro cervello rielabora in un preciso momento, in una precisa condizione, dentro la nostra esperienza culturale. In pratica non esiste una sola verità ma infinite verità. Inquietante fino a disorientare la nostra mente. Viene da dire che non pensare ci aiuterebbe a vivere meglio, ma è solo un paradosso. Non possiamo rinunciare all’emozione profonda che ci deriva dalla consapevolezza del nostro pensiero e delle percezioni che ne derivano, anche quelle dolorose.

Greci e Romani hanno messo le basi per sostanziare questo pensiero attraverso i due linguaggi della narrazione: mitologico e storico, poi sviluppati e declinati in altre sotto forme comunicative. Resta il fatto che i due linguaggi si intersecano, si sostengono, diventano tra di loro complementari e sussidiari. Il racconto mitologico si ritaglia il compito di rendere poetico l’evento e quello storico di rendere oggettiva la sequenza di fatti e misfatti. Un’illusione della mente.

L’arte è essa stessa uno strumento narrativo che manipola i fatti: il teatro, il cinema per esempio. Sono l’illusione della realtà, come il sogno per certi versi. L’illusione, forse la speranza o le paure. Tutto utile per ricomporre. Come un costruttore che, dovendo edificare, ri-compone materiali per ottenere nuove forme. Estrapola dalle infinite materie e dalle mille storie in esse contenute, quello che ritiene più utile per rappresentare la sua forma originale che il mondo vedrà per sempre o almeno fin quando un terremoto non deciderà di distruggerla (la verità provvisoria).

Si può uccidere o amare con le storie? Possiamo cambiare la vita di qualcuno attraverso le nostre storie inventate? Noi siamo il Minotauro, Arianna, il labirinto o Teseo, nel fluire della nostra vita? Siamo Ulisse o Tiresia? Siamo l’oracolo o il dogma? Siamo Erinne o eroi greci? Siamo costruttori di storie e in questo senso, l’etica e la morale, hanno un ruolo determinante per perimetrare uno spazio chiamato verità. Più che di verità come punto statico della dialettica, parlerei di un paesaggio della verità, più dinamico, ma sempre orientato verso la dimensione della libertà e del rispetto della dignità dell’uomo. Insomma dire falsità fa male a chi le subisce e in qualche modo a chi le esercita, perché modifica il Dna culturale, creando persino metastasi della mente.

Meglio il silenzio qualche volta, meglio la sobrietà intellettuale. Meglio, molto meglio.

Meglio la coerenza, l’onestà, la moralità, nella ricostruzione della storia. Meglio l’indagine, la ricerca della verità, contro le superficialità funzionali. Disegnare qualcuno diverso da quello che è, potrebbe essere come uccidere: allora si chiamerebbe omicidio, sarebbe quindi un reato per Dio e per la Patria. Non basta sapere bisogna anche esercitare la cultura “greca”, nella ricerca della verità storica.

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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