Abitare: espandere le città dentro di esse per accogliere uomini in movimento

La città continua a cambiare forma, significato, mutando le sue funzioni velocemente.

La città continua a cambiare forma, significato, mutando le sue funzioni velocemente.

La città continua a cambiare forma, significato, mutando le sue funzioni velocemente.La società liquida e digitale ha stravolto il presente, ribaltato le gerarchie, disorientando le nostre vite: accelerate e rallentate con modalità spesso ingovernabili. La nostra percezione del tempo nello spazio è cambiata; le distanze, i tempi di percorrenza, le relazioni, persino le priorità sono state modificate dalle tecnologie, dalla pandemia, da una nuova etica dell’abitare il pianeta.

Ormai da anni ci si interroga sulle forme dell’architettura e della città, sulla percezione dei paesaggi e sulla loro morfogenesi, sulla memoria e su quanta di questa deve essere salvata. Alcuni slogan sono ormai patrimonio di tutti: bisogna decongestionare le città, svuotarle per riconquistare i borghi, le campagne, le periferie; bisogna riprendere il rapporto con la natura – orti, boschi, fattorie, spiagge e montagne, materiali e tecniche – con l’idea del trascendente e con gli stessi uomini. Mode, slogan, filosofie, movimenti, normative, programmi, un atlante infinito di propositi che tentano di cambiare il mondo.

Ma il mondo non vuole cambiare.

Resiste, insiste, aggira l’ostacolo, si mimetizza tra le pieghe dell’etica. Alcune forme di architettura e di città sono emblematiche di questo atteggiamento. Nuovi quartieri green, tecnologie bio, ambienti a misura d’uomo. A prima vista sembrano la soluzione tanto attesa ma osservando meglio sembra come la pubblicità della coca-cola zero, senza zucchero ma fa male lo stesso, non risolve il problema.

La realtà delle cose è evidente.

La città continua a cambiare forma, significato, mutando le sue funzioni velocemente.Da una parte abbiamo una porzione sempre più piccola di natura e dall’altra una quantità enorme di natura compromessa irrimediabilmente che andrebbe riparata. Volendo utilizzare categorie dello spazio meglio conosciute, possiamo dire che il centro storico, la città consolidata, le periferie, le aree produttive e infrastrutturali sono – spesso – il luogo delle contraddizioni. Al netto di rari casi disseminati nel mondo, come alcune città e campagne o parti di esse, il resto è da sistemare, riparare, sostituire, ricucire, rigenerare.

Non volendo scivolare nel semplicistico tema del recupero e del restauro del patrimonio esistente c’è da indagare sulla possibilità che i suoli dove innestare le nuove architetture siano gli stessi che oggi sono compromessi dalla stratificazione della storia.

Cioè la più grande area di espansione delle città, quella dove andrebbero realizzate le più importanti architetture, non sono da ricercare fuori, ai margini o persino lontano dalle città ma dentro di esse. La città non può più essere un nucleo compatto che si espande verso il suo esterno, con una forza centrifuga inarrestabile; “la città” sono “le città” collocate in uno spazio geografico connesse da un reticolo infrastrutturale, ricche di interstizi e di relazioni visibili e invisibili.

Prendere atto di questa narrazione significa modificare lo sguardo politico e urbanistico e pertanto le prospettive operative. Un policentrismo di nuclei, di reti, di periferie, di nature che dialogano incessantemente e rappresentano una porzione significativa della complessità dello spazio abitato.

L’architettura in questo contesto deve risolvere alcune criticità emerse nella storia.

La città continua a cambiare forma, significato, mutando le sue funzioni velocemente.Criticità che hanno determinato – al netto delle opere di qualità dell’architettura – il consumo del suolo. La soluzione che si prospetta è quella rappresentata dalla stazione orbitante. Una “casa” che non consuma suolo ma spazio e non in forma statica. Cioè occupa lo spazio funzionale alle sue necessità ed è disposta a spostare – se necessario – la sua posizione. Come una nave che fluttua sull’acqua con un radicamento al luogo di tipo provvisorio: solo l’ancora la lega a quel fondale.

Le Corbusier (architetto svizzero, 1887-1965) aveva riflettuto sull’idea di sollevare l’architettura dal suolo (idea geniale) restituendo alla natura quanto tolto, raddoppiando con il tetto giardino la superficie comunque coperta. Quella logica di architettura che si radica al suolo, come se ne facesse parte, come una pianta o un masso ha forse finito il suo tempo. L’architettura – nella sua nuova declinazione tecnologica e funzionale – ha bisogno di staccarsi dal suolo, considerare l’esistente come un rudere, come una nuova natura, come una cava. Il suolo che ridiventa natura e l’abitare che si fa orbitante, sospeso, fluttuante. La città costruita e coltivata come un nuovo spazio per rifondare una nuova entità. Già avviene nelle campagne dove sopra le terre coltivate svettano alberi fotovoltaici. (Per approfondire, la lettura di Architetture parassite di Sara Marini del 2008 edito da Quodlibet, sarebbe utile)

Cambiano le aspettative rispetto all’idea di paesaggio.

La città continua a cambiare forma, significato, mutando le sue funzioni velocemente.Immaginiamo le immense distese di serre – fatte di plastica e acciaio – che caratterizzano alcune aree produttive. Lo stesso principio si potrebbe configurare sopra o sotto le città esistenti, escludendo quelle parti che – per qualità figurale e storica – meritano la loro tutela e del paesaggio di prossimità. Le città saranno sempre più costituite di reti, cablaggi, connessioni, hub, aree di stoccaggio e di sosta. Captatori e conservatori di risorse – acqua, rifiuti, merci, energie. E la visione non è più locale (nazionale) ma geografica (continentale). Reti infrastrutturali intercontinentali, pianure fotovoltaiche, interporti come costellazioni della logistica del trasporto delle merci e dei passeggieri.

Dentro questo filiforme sistema di connessioni ci stanno le città (costruite e coltivate) che devono accogliere i luoghi dell’abitare (qualche volta provvisori), perché il radicamento a terra, in una terra precisa, sarà un’eccezione. Saremo uomini in movimento, lentamente o velocemente ma in movimento.

Allora sarà prezioso un bosco, un fiume, una spiaggia, un tempio, una vecchia strada, una piazza. Sarà prezioso un tavolino sotto un albero nella piazzetta, una granita con la brioche, un Dry Martini, una vespa piaggio, una gonna rossa e svolazzante e la colonna sonora di Moon River di Frank Sinatra che accompagna un ballo tra le braccia di lei, nella notte misteriosa di Toledo.

Sarà prezioso anche un film, un’opera teatrale, una poesia, un disegno a matita e un sorriso malizioso. Non serve nostalgia ma la consapevolezza che il futuro presente è una visione da costruire senza paure.

La città continua a cambiare forma, significato, mutando le sue funzioni velocemente.

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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