Il tema di questi giorni è la transizione ecologica.
La necessità di curvare in chiave ambientalista la produzione di beni e le trasformazioni dei territori. Una necessità ormai inevitabile che impegna ogni settore produttivo – industria, agricoltura e artigianato – a trovare strategie e nuove modalità per mitigare l’impatto delle attività umane sulla salute del nostro pianeta. Una sfida globale e complessa, tenuto anche conto dei livelli di sviluppo e di produttività raggiunti ormai irreversibili. L’ecologia preindustriale, cioè il saldo tra le risorse disponibili, la loro capacità di rigenerarsi e il consumo delle stesse, era più o meno in equilibrio. Dopo la rivoluzione industriale, sempre più velocemente si sono manifestati i tanti cortocircuiti che oggi impongono un vero e proprio passo indietro, o meglio, un cambio di paradigma per l’ambiente.
Tutto questo interessa molti settori, forse tutti.
L’edilizia è uno di questi e considerata la sua incidenza nella produzione di Co2, sarebbe utile fare una riflessione complessiva su tutta la filiera. Dopo anni di consumo del suolo, di energia e di materiali, pretesto per esercitare un’effimera qualità dell’architettura, oggi siamo costretti a fare un bel passo indietro, consapevoli che comunque abbiamo compromesso i nostri paesaggi. Riconvertire il nostro patrimonio antropico come fabbriche, quartieri residenziali e direzionali, infrastrutture e manufatti storici è la sfida a cui dobbiamo dare una risposta coerente. Non possiamo non ammettere che abbiamo compromesso il paesaggio ereditato, non tanto introducendo la modernità, ma rompendo l’equilibrio tra figura e sfondo, tra necessità e capriccio, tra bisogni e mode.
La risposta attuale alle anomalie dell’abitare si chiama architettura sostenibile a consumo zero (o quasi).
Una nuova filosofia che si colloca in un contesto produttivo globale. Materiali, tecnologie e forme importate ed esportate ovunque. La perdita della territorialità in nome di una modernità universale invadente e seriale. Come se non si fosse compreso il significato vero di ecologia contestuale. Allora tutti a usare il bambù, ovunque. Il legno, la canapa, l’alluminio, e così via, delegando al materiale la funzione di guaritore della terra.
Alcune domande potrebbero sollecitare una riflessione più ampia.
Sostituire diffusamente il patrimonio esistente – demolendo e ricostruendo – produce una quantità di rifiuto edile enorme, il cui smaltimento sarebbe un nuovo problema per le comunità? Abbiamo delle soluzioni già consolidate per il riuso dei materiali da demolizione: calcestruzzo, ferro, legno, ceramiche, e con quali costi ambientali?
Enfatizzare un materiale in particolare – il legno o il bambù – come portatore di sostenibilità non potrebbe compromettere la stessa natura? Se tutti dovessimo usare questi materiali sarebbe una catastrofe, come l’aumento dell’uso delle carni da allevamento nella produzione alimentare (per esempio polli, bovini).
L’uso di materiali speciali, spesso importati, qualche volta dai poteri magici, potrebbe impoverire il tessuto produttivo locale, anestetizzando la capacità di ricerca e la cultura tecnologica delle maestranze? Diventando in tutto e per tutto dipendenti dai mercati globalizzati? In questi giorni l’aumento delle materie prime come ferro e legno sta mettendo in ginocchio i costruttori e gli artigiani.
Se siamo d’accordo con la necessità di diminuire l’uso del suolo, non sarebbe opportuno incentivare le architetture verticali e il recupero del patrimonio esistente (storico e moderno)? Premiando, facilitando, governando, semplificando invece di intralciare con pastrocchi normativi e ideologici? Il progetto di architettura è lo strumento principe per governare queste trasformazioni al netto delle strumentalizzazioni e riproporre le commissioni sulla qualità dei paesaggi (valutazione soggettiva) mi sembra ad oggi la cosa più seria, i criteri frutto di allineamenti numerici (valutazione oggettiva) non mi sembra che abbiano dato grandi risultati (ditemi se sbaglio?).
Altra riflessione, possiamo governare la qualità dell’architettura e dello spazio urbano, rurale e naturale con il decimetro? Queste politiche hanno generato una diffusa difformità urbanistica che oggi ci deve fare riflettere (i paletti insormontabili per il super bonus). Verrebbe da dire, chi è senza difformità scagli la prima pietra? In Italia qualcosa non ha funzionato e non venite a dirmi che siamo tutti palazzinari abusivi.
Ecco questa è l’ultima riflessione.
Abusi e condoni. In Italia non si può nemmeno dire la parola condono che si scatenano le tempeste ideologiche. Una parola maledetta, una procedura indicibile. Allora andiamo fino in fondo, demoliamo l’80% del patrimonio italiano.
Forse dovremmo interrogarci sul significato di abuso edilizio, sulle differenze tra gli abusi. Forse si dovrebbe aprire una seria riflessione sul concetto di difformità sul piano dimensionale e paesaggistico e trovare soluzioni di riparazione governate dal progetto. Un tema difficile e imbarazzante perché alla fine arriva sempre la mannaia integralista che non riesce a fare differenze mettendo tutto sullo stesso piano.
La conseguenza di questa mancanza di flessibilità è un paese ricco di relitti, di incompiute, di demolizioni mancate, di brutture sotto sequestro per anni, di cause secolari e di difformità.
Nessuno lo dice apertamente ma servirebbe un condono o comunque la possibilità di aggiustare, di riparare, di rimodellare per non galleggiare nell’ipocrisia di chi si scandalizza a macchia di leopardo.
Aggiustare sempre attraverso un progetto di qualità che risolva le contraddizioni con deroghe puntuali. Vediamo cosa succede? Questa provocazione potrebbe aprire un serio dibattito sul tema: cosa significa sostenibilità in termini più ampi e sistemici? E che ne facciamo della “La casa sulla cascata” diventato Patrimonio dell’Unesco progettata da Frank Lloyd Wright o di casa Malaparte di Adalberto Libera?