L’addio alla vita come ultimo strappo: siamo un istante consapevole tra due infinità

L’addio alla vita come ultimo strappo: siamo un istante consapevole tra due infinità

La morte spesso separa ma anche unisce. Produce uno strappo, una lacerazione, un mancamento. La perdita di una parte di sé.

Come se fosse possibile continuare a vivere senza un braccio, una gamba, un cuore.

L’addio alla vita come ultimo strappo: siamo un istante consapevole tra due infinitàEppure la morte unisce, ricompatta, ricuce, rigenera. Non solo, la morte profetizza, annuncia qualcosa. L’incontro con questa dama, vestita di nero, dal volto coperto e dalle mani gelide è sempre misterioso e angosciante ma è l’incontro a cui tutti siamo destinati, da sempre, per sempre.

La nostra stessa civiltà ha costruito mitologie, liturgie, monumenti e forme di potere usando la morte, in tutte le sue forme. Avvicinarsi, incontrarsi e superare la morte. Da soli, spesso in solitudine; è un incontro personale a cui spesso non siamo preparati. All’improvviso, per giusta causa, strappati alle gioie della vita, alla fine di un lungo percorso. Comunque essa arriva, consapevole del suo ufficio.

I monaci, da sempre, sono educati all’arrivo della morte, ci convivono e la sfiorano delicatamente.

L’addio alla vita come ultimo strappo: siamo un istante consapevole tra due infinitàMetafora in Giotto, cruda decomposizione in Masaccio. Una falce, un mantello, il sorriso di un teschio e il giudizio universale sono le icone della morte giottesca. Uno scheletro, posto sulla nuda pietra, sovrastato dalla vita e dalla speranza nella versione di Masaccio. Una figura, quella della morte, che ghigna, che non perdona, che recide il filo che ci lega al presente. Lo sapeva benissimo l’autore del “Trionfo della morte” a Palazzo Abatellis a Palermo; lo sapeva benissimo Mantegna nel “Cristo deposto”, conservato all’Accademia di Brera e Canova nella sua straziante opere “Monumento funebre a Maria Cristina d’Austria” a Vienna. La mente, cerca nell’arte un timido conforto, nel “Cristo velato” della Cappella di Sansevero a Napoli, nel sarcofago degli sposi, capolavoro etrusco.

La morte attesa, desiderata, ingannata, evitata, nascosta ma pur sempre presente intorno a noi.

L’addio alla vita come ultimo strappo: siamo un istante consapevole tra due infinitàCome un uccello che aleggia in alto nel cielo, che osserva gli uomini fino a scegliere la sua nuova compagnia. Un Caronte dagli occhi di brace che impaziente aspetta la sua moneta. Una pietra che chiude per sempre la tomba prescelta. La fine di un sentiero, forse la fine di quel sentiero. Noi, in fin dei conti, siamo un istante consapevole tra due infinità, quella passata e quella futura. In quell’istante, tra due eternità, percepiamo il mistero del divino e la dimensione del sacro.
L’angelo di Dio che strappa la vita ai fanciulli d’Egitto e la strage degli innocenti di Erode sono insieme ai genocidi nazisti e alle sue derivazioni, le immagini più drammatiche della morte, forse l’incubo più grande, la metafora inaccettabile, la paura più terrificante. Poi la morte è anche altro, oltre, da sempre. Un culto, una liturgia, un’allegoria.

Come le processioni raffigurate nell’ “Anfora del Dípylon” con quelle figure appena accennate che mostrano il dramma infinito elevato a processione sacra. La Thólos di Agamennone, la piramide di Cheope, il mausoleo di Alicarnasso, il Taj Mahal, perché l’umanità vuole ricordare, prolungare la memoria dei propri cari fino a sentirli eternamente presenti. Dentro la casa, la città, i luoghi che ne assumono le fattezze: sotto forma di sculture, di nomi, di riti, di mitologie.

La morte unisce nel dolore, nella speranza, nel conforto, nel ricordo.

L’esigenza di ricordare, di ritualizzare. Come quelle mamme che ritrovano sollievo – ammesso che basti – nel frequentare i cimiteri, dove riposano i corpi senza vita dei loro cari. Mamme, mogli, figlie, amiche, perché la donna è portatrice di vita e la donna reclama la vita alla morte, la pretende, la esige.

In una piccola città siciliana, sulla sua acropoli, dove riposano le anime dei morti, qualche giorno fa, un gruppo di donne e i lori bambini giocavano sul prato, di fronte alla vecchia chiesa di San Giorgio. Giocavano, di sera, allegramente. Ma una di quelle donne era in attesa di nuova vita, e sfiorava con lo sguardo le altre donne e i loro bambini. Questa donna era lì per salutare un figlio strappato dalla morte alle sue attenzioni e lei dolcemente sfidava il destino con una nuova proposta di vita. Un atto di coraggio e di rispetto. Quella festa di bimbi era una dichiarazione di vita, oltre la morte. L’unione dei vivi e dei morti senza paura, come se fossero uniti da un’unica giostra. Lei, con il suo corpo ormai evidentemente vocato alla vita era lì, a nascondere le lacrime dietro un velo.

Oltre la morte, non contro la morte, ma oltre la morte.

Che rimane pur sempre portatrice di nuova vita. Come «quel seme che deve morire per rinascere» (Gv 12,24). Allora oggi conviene pensare al battesimo di quel bambino santo sfuggito a Erode. Quel cucciolo d’uomo che ha segnato un nuovo percorso di vita. Lo sapevano gli antichi che la natura insegna ogni cosa, che la terra è portatrice di saggezza, che i contadini sono sacerdoti da sempre, che non ci rimane che vivere quell’istante di consapevolezza facendo sempre la cosa giusta. Oggi la chiesa Cristiana festeggia il battesimo di Gesù, non importa crederci, basta cogliere il suo significato più vero, cogliendo il senso profondo che accumuna gli uomini di ogni tempo e di ogni religione: quello di rinascere. Resta comunque quel dolore interiore, quella ferita che potrà rimarginarsi oltre la nostra stessa vita. Ora non resta che vivere questo tempo di sospensione, di lentezza, di riflessione. Oltre, tutto ricomincerà a pulsare più di prima, perché questi tempi, segnati dalla disperazione della morte, devono servire per costruire nuova memoria, nuovi progetti, nuove cattedrali. L’uomo è rinascenza.

Sull’argomento brillano le parole di Pablo Neruda:

«Io tornerò / Un giorno, uomo o donna, viandante, / dopo, quando non vivrò, / cercate qui, cercatemi / tra pietra e oceano, / alla luce burrascosa della schiuma. / Qui cercate, cercatemi, / perché qui tornerò senza dire nulla, / senza voce, senza bocca, puro, / qui tornerò a essere il movimento dell’acqua, del suo cuore selvaggio, / starò qui, perso e ritrovato: / qui sarò forse pietra e silenzio.»

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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