Paternò, la Pasqua nei versi di Nunzio Carmeni: canonici, cappe magne e un tributo d’amore

I cristiani si preparano a festeggiare la Pasqua, nei paesi e nei borghi si rinnovano le tradizioni. A Paternò pochi ricordano il paternese Nunzio Carmeni.

“Era figlio di questa terra, – scrive di lui Barbaro Conti – a soli 22 anni per il servizio di leva va a Trento. Lì si stabilisce anche dopo la guerra, trova la moglie e il lavoro. E’ giornalista, scrittore, critico letterario. Immensa la sua attività: tiene rubriche radiofoniche per la Rai di Trento. A quei tempi mentre sui muri la gente, vergognosamente, scriveva “abbasso i terroni”, Nunzio Carmeni, era un siciliano puro sangue che insegnava ad amare la cultura, circondato di stima dagli alunni e di tutto il paese.
“Questa poesia è bella” ci dice un altro figlio emerito di Paternò, Pippo Virgillito a proposito del componimento di Carmeni che il Corriere Etneo propone. “Le nuove generazioni potrebbero non capirla, la settimana santa a Paternò, nel tempo ha subito delle modifiche, Carmeni ci restituisce come una fotografia, la processione del Venerdì Santo con i canonici e le cappe magne. E poi, la Domenica di Risurrezione. E’ una bella dedica, che Carmeni fa al suo paese natale. Certamente è uno scritto di altissimo valore letterario.

La sera è salda alle case
livida colata di tenebre
compatta.
Non un lume per le strade
nelle case senza nessuno
nel verde cupo del cielo.
Non un suono
prima che giunga la salmodia della processione
e lo scoppio delle fiaccole
frementi e luminose
incida
a tagli d’ombra
in rosso e giallo sui muri balenanti
la folla assiepata in attesa
lungo i marciapiedi di questo budello di strada.
Con l’alfiere portastendardo
della Compagnia della Buona Morte
in elmo e corazza e gonnellino corto
come un paladino carolingio
avanza
l’uomo rosso dal grande tamburo
– lo batte a lunghe percussioni d’agonia –
e, dietro,
la doppia fila degli Incappucciati
in bianco saio dalla testa ai piedi
come fantasmi
– due buchi neri
per vedere
ed il cilicio ai fianchi
per significare.
Avanza la schiera delle fanciulle e dei fanciulli
coi simboli del Tormento
– corone di spine alle teste moresche
e nelle mani le Croci
le Scale di deposizione
i Chiodi a largo cuneo
della Crocefissione
i crotali di canna a gracidare.
A testa bassa in cappucci d’ermellino trascinano i canonici
le cappe viola dalle code lunghissime
e passa nella bara di vetro
la spettrale magrezza di Cristo stagnata di sangue
fra caldi odori d’incenso
d’umide erbe sepolcrali.
L’Addolorata dal manto di lutto
protende in avanti l’offerta
sulle candide mani
del cuore sfondato da sette lame lucenti.
Si curva la folla in ginocchio
con l’anima nel rito non più rito
non più antica Sacra
Rappresentazione
tradizionale spettacolo saputo
ma dramma a misura di croce
ma ferita slabbrata
nella carne originaria
dal giorno nel quale fu detto
“Con la luce sia Tempo
e col Tempo il Dolore”.
– Dilaga dalla cerchia delle case
nella piana d’erbe e frutteti e mandorli in fiore
all’orizzonte laccato
il bruno mare dei giardini
attorno al Castello Normanno
quadrato
nel cielo della rupe venato
dall’oro caldo dei cedri
e delle arance
tra il Convento spezzato
il cimitero arioso, la tozza antichissima mole
della Chiesa Madre,
fra poco scioglieranno le campane
del Sabato di Resurrezione.
– Il sagrestano alle corde proteso al segnale
col panno rosso in mano un altro all’ogiva
fra il triangolo del tetto e il rosone strombato
per l’annuncio
da quel punto di zenit alla valle che attende
alle sue chiese raccolte
all’imminenza del grido.
Alla Grande Porta ramata di muffe l’Officiante ha picchiato
da dietro hanno detto parole e la Porta s’è aperta
frusciando.
Dall’anfiteatro del coro
e dalle panche di noce tarlata
pregano i cori fra nubi d’incensi
e luci iridanti che spiovano
dai mosaici delle vetrate
come da nubi spaccate colonne di sole
ed al primo scoccare della campana che squilla
ognuno è faccia a terra a baciare il pavimento
ilare e fremente nello scoppio di grazia
– La ceramica ha l’acre sapore di vetro del limone.
E l’uomo della strada
l’uomo della campagna
ognuno e dovunque
per fango e polvere che sia s’è steso a baciarla
la terra
è risorto fratello a baciare il fratello.
Da tutto il paese si spara al cielo che scampana
da finestre e balconi argille di anfore e pentole
si scaricano in gara
a sbriciolarsi allegre sul selciato
E non butterò anch’io
dalla vecchia finestra dell’animo
le vecchie cose inutili e amare
accumulate agli angoli scuri
in quell’allegra follia?

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