Il nostro modo di vivere i luoghi, la storia e il paesaggio, è sempre più condizionato dai dispositivi tecnologici che ci forniscono iper-informazioni. Sollecitazioni convulsive di ogni genere. Con un tasto possiamo viaggiare – pur rimanendo seduti sulla nostra poltrona – verso spazi lontani. Tokio, Londra, Parigi, Roma. Velocemente da un posto all’altro e con la possibilità di esplorare ambiti sempre più dettagliati. Immagini satellitari, link di approfondimento, mappe interattive, documentari TV ed eventi culturali mondiali.
Ai margini di questo spazio dell’informazione c’è il nostro “villaggio”, la nostra terra, i nostri giacimenti. Che vediamo tutti i giorni, ma non guardiamo con attenzione. Presi dal delirio della “velocità” e famelici nei confronti di tutto ciò che proviene dal mondo esterno, perdiamo di vista i nostri tesori negati, quelli sotto casa, dietro l’angolo.
Ogni tanto, li ricordiamo solo quando qualcuno, da fuori, li evidenzia e ne parla come beni preziosi. Solo allora ne percepiamo il valore storico, economico e culturale.
In questi giorni, passeggiando con un amico, tra vecchi sentieri di campagna, ho ri-scoperto un tratto dell’acquedotto romano – che da Santa Maria di Licodia (più o meno), portava l’acqua a Catania. Improvvisamente –davanti ai nostri occhi – un muro di cinta che costeggia una vecchia trazzera, si svela come testimonianza di altro, quasi un mistero. Bucato, per realizzare aperture nei fondi agricoli, usato come cisterna, come recinto e per nascondere rifiuti – di quelli che qualche furbo deposita impropriamente. Per un istante ho persino pensato a chissà quale scoperta, e invece è tutto catalogato, pubblicato e rilevato – dalla soprintendenza, dalla comunità scientifica, ecc. ma non è percepito dalla collettività. Sembra un tesoro per pochi intimi. Nessuna fruizione, nessun cartello, nessuna didascalia, ma cosa più grave, nessuna consapevolezza del suo valore da parte della comunità. Questa è la cosa grave e per questo è usato come un muro venuto male o che sta per crollare. Questa è la cosa grave. Nessuno lo vede, lo guarda, lo sente come una valore culturale, come testimonianza della nostra identità. Persino la strada sotto i nostri piedi, (provinciale) non è un basolato come tanti, ma è proprio la strada romana che nessuno vede e percepisce, eppure è l’oggetto di diverse pubblicazioni scientifiche. In questi luoghi nascosti e negati non rimane che depositare rifiuti o incontrarsi furtivamente.
Noi siamo specializzati – al contrario – a coprire questi giacimenti archeologici con tutto quello che possiamo. Alla fine dell’800 abbiamo coperto la città alta (akropolis) con il cimitero; dagli anni ’70 in poi abbiamo coperto con case abusive (autocostruzioni), l’area delle terme e dei templi in zona Salinelle/San Marco; poi abbiamo coperto la necropoli e i resti del convento Basiliano di Scala Vecchia con altre case. Un discorso a parte, è il più grande scavo clandestino e organizzato istituzionalmente dell’acropoli, che si è realizzato negli anni ’50 e ’60 (chissà cosa hanno trovato e chi ha trovato), che ha privato la collettività di opere inestimabili.
Sembra che qualcuno sappia dove edificare (abusivamente) per usare gli scavi di fondazione in maniera opportuna. Apparentemente un caso, ma mi viene il sospetto, che per sapere dove si trovano i resti archeologici in questo territorio, basta individuare insediamenti abusivi “organizzati” e il gioco è fatto – gli archeologi sono avvisati.
Mi aspetto anche, che qualcuno realizzi serre agricole e opifici in campagna – magari sotto la collina, verso il fiume per scavare ancora a danno delle storia, della memoria e dell’economia turistica. Speriamo di sbagliarci.
In compenso, siamo capaci di fare silenzio per le scoperte più rilevanti. Nel 2007 è stata rinvenuta una piccola venere ellenistica di ceramica – sull’acropoli – e in pochi hanno avuto la fortuna di vederla. Di esporla in pubblico nemmeno se ne parla. E che dire di tutte le pubblicazioni (scientifiche) sugli scavi archeologici che non è facile trovare e consultare. Tanto silenzio per nulla, perché il silenzio trova le sue ragioni nel desiderio di proteggere i giacimenti esistenti, ma l’unico risultato, è che nel silenzio e nell’ombra, chi deve scavare, scava e specula. Chissà quando vedremo la pubblicazione dei risultati degli ultimi scavi di San Marco, che aprono uno spiraglio nella ridefinizione della fondazione della città e della sua matrice greca?
La strada da perseguire è invece quella di divulgare, comunicare. Rimaniamo incantati dalle bellezze, che Alberto Angela ci presenta in TV e dovremmo lavorare in tal senso. Divulgare, non solo nelle scuole, non solo sostenendo il lavoro della Proloco, di CiakTelesud (che ha prodotto diversi speciali) e di tutte quelle agenzie che si occupano di storia e promozione culturale (geniusloci.it per esempio), ma mettendo mano a due questioni: organizzare una rete di siti visitabili e fruibili in tutto il territorio – possibilmente con una pista ciclabile che li connetta e una segnaletica dedicata e ancora più importante, promuovere un portale specializzato, in cui si possano riversare tutte le ricerche, le scoperte, gli studi e le pubblicazioni al fine di aiutare gli studiosi e i fruitori ad approfondire i temi della memoria archeologica di questo territorio, (in pratica unificare gli sforzi di tanti ricercatori e storici). Terme, acquedotti, moschee, città nascoste, necropoli, cisterne, fornaci, mulini, capanne, teatri, strade romane e chissà quanto altro ancora.
Un Paesaggio da svelare e da guardare con occhi nuovi.
Un paesaggio della memoria da sostenere, anche creando corridoi protetti per la fruizione, recuperando e rimodellando lo spazio fisico che si interpone tra i luoghi dell’accesso e i tesori della storia. Una priorità necessaria. Oggi più che mai, tenuto conto della metropolitana e dei collegamenti diretti con l’aeroporto. Dall’acropoli all’aeroporto, direttamente. Questa è civiltà del turismo. Da Catania a San Marco/Schettino, questa è la strategia possibile, per un’ecologia di sistema, integrata e innovativa. Se vogliamo parlare di svelare il nostro tesoro, renderlo fruibile e produttivo, dobbiamo pensare al futuro. La politica, l’imprenditoria, i ricercatori, hanno tanto da fare ancora, ma bisogna iniziare il primo passo, se si vogliono fare grandi cose.