I cambiamenti climatici impongono un cambio radicale di paradigma, anche se non crediamo all’idea che il clima sta cambiando, dobbiamo comunque prendere atto che il nostro modo di “abitare” il pianeta deve cambiare.
A dirla tutta non è solo il clima che impone delle trasformazioni, ci sono anche i cambiamenti sociali e culturali, quelli del mercato e le continue innovazioni (o regressioni) tecnologiche e normative. In pratica, “la casa e la città” così come l’abbiamo immaginata e costruita negli ultimi ottant’anni non funziona più, o quantomeno ha bisogno di una metamorfosi guidata.
Dalla città di Ur nella Mesopotamia del quarto millennio a.C., alla Tokyo di oggi, tutto è cambiato, l’uomo, il suo rapporto con la natura, con i suoi simili e con il cosmo – fisico e metafisico. Sono cambiate le tecnologie, i sistemi di comunicazione, l’organizzazione sociale e il lavoro. I sistemi di difesa e di protezione. È cambiato tutto.
Ovviamente la rivoluzione industriale, in Europa, ha determinato un’accelerazione verso modelli di città che si sono dovuti adattare alle nuove dinamiche produttive, all’urbanesimo improvviso e alla necessità di offrire nuovi servizi alla collettività. Oggi più che mai abbiamo bisogno di spazi specializzati per le nostre innumerevoli attività, di sicurezza – dentro e fuori dalle nostre abitazioni – di mobilità e comunicazione, per noi e per i nostri dati e le nostre merci.
Ma dobbiamo fare i conti con quello che abbiamo, nel frattempo, accumulato, costruito, trasformato, invaso, compromesso fino a storpiare per sempre il “paesaggio” ereditato.
Un’azione ossessiva e compulsiva prima – in molti casi – priva di senso e logica. Abbiamo scavato, rimodellato, sovrapposto, compromesso quel patrimonio di segni e di memoria che rappresentavano il lento progredire della nostra civiltà. Ormai tutti parlano di “riparare” l’ambiente. O meglio, di prepararci a modifiche che non dipendono più esclusivamente da noi come società. Appunto i cambiamenti climatici in testa. Valenzia, Bologna, e tante altre città sono le testimonianze di questa nuova stagione dell’emergenza.
La questione è ovviamente complessa, afferisce a innumerevoli discipline e riguarda tanti attori del governo della città e del territorio. Non esiste una ricetta unica e risolutiva, non basta l’azione del singolo e nemmeno quella puntuale. Serve un programma integrato che incida nel breve, medio e lungo termine. Serve un’azione educativa diffusa e mirata, che modifichi il “modus” di fare architettura, di trasformare l’ambiente, evitando le demagogie, i fanatismi e le speculazioni industriali. Serve un nuovo contesto normativo, tipologico, tecnologico ed economico che supporta operativamente tutta la comunità e non solo una parte, quella più facoltosa. Se le innovazioni non sono per tutti non c’è nessun progresso e il fallimento delle auto elettriche lo dimostra (non parliamo della filiera produttiva che sostiene questo mercato).
Quindi ripartiamo dalle case, dalla città. Ripartiamo dal costruito, dal patrimonio esistente. La parola d’ordine è mitigare, trasformare, consumando meno. La città, nelle sue parti, ha bisogno di un radicale processo di metamorfosi, per adeguarsi. Il manufatto architettonico può modificare la sua giacitura a terra. Può esprimersi in altezza invece che in larghezza e considerare l’ipotesi che il suo ingresso sia terrestre e aereo. Ma tutto questo non per aumentare il potenziale edificatorio ma per restituire – le città esistente – un maggior numero di metri quadrati di superficie permeabile e naturale, dedicata agli “alberi”.
Nei centri storici diruti e degradati – dove non c’è la necessità di una conservazione più spinta – nella città consolidata, nelle periferie sature o che presentano manufatti non più performanti sul piano della sicurezza e della risposta agli agenti atmosferici. In quelle parti di territorio dove abbiamo compromesso l’idea stessa di paesaggio, dopo averli violentati ripetutamente con intromissioni formali e funzionali di basso profilo (capannoni, distributori di carburante, relitti industriali).
C’è, quindi, la necessità di riformulare una normativa generale che cambi la prospettiva. Una normativa che incentivi la “sostituzione” architettonica e urbana. Con premialità importanti a patto che ci sia un reale beneficio anche per la comunità. Più permeabilità, più vuoti urbani, più alberi, più riserve idriche. Perché anche gli spazio pubblici, le piazze in particolare, devono diventare permeabili e alberate, e non come sempre accade solo e semplici pavimentazioni di pietra o asfalto.
“Aumentare del 50% il volume di un fabbricato in caso di demolizione e ricostruzione serve a consumare meno suolo e non viceversa. Incentiva la sostituzione di quel patrimonio obsoleto esistente verso nuove modalità costruttive più sostenibili. Se imponesse anche l’obbligo di ricostruire in altezza a vantaggio di superfici permeabili con piantumazione arboree, sarebbe ancora meglio. Mi sono scocciato di certe demagogie frutto di ambientalismi sterili”, scrivevo qualche giorno fa sui social, raccogliendo diverse condivisioni bipartisan.
Forse è venuto il momento di proporre una nuova normativa in Sicilia, di unire le forse per costruire una legge sensata che l’Assemblea Regionale Siciliana potrebbe valutare con più attenzione, consapevole che non è una proposta che compromette il territorio ma al contrario lo “ripara”. In attesa che gli strumenti di pianificazione comunale diventino veramente obbligatori per tutte le città. Quindi una legge equa, approfondita, etica, utile, differenziata per obiettivi, per tutelare il paesaggio che rimetta al centro la qualità del progetto di architettura e città.