Una delle tante storie del mondo. Di quella parte del mondo che si chiama sud.
Una fiumara di lavoratori stagionali che solcano i mari con le braccia, che sputano sangue sulla terra, che piangono in silenzio, tra plastiche e rifiuti. Una schiavitù sommersa, nascosta, ma usata ormai da anni.
Come uccelli migratori, da un continente all’altro, si spostano lungo le rotte del lavoro stagionale, nei campi, nelle fabbriche, sognando l’Italia, l’Europa. Scappano dalla miseria, fuggono dalla violenza, attraversano deserti di sabbia, di acqua e di indifferenza. Muoiono, lasciando lungo il loro cammino le carcasse dei loro compagni di viaggio e la loro stessa dignità.
Hanno volti segnati dalla fatica, uno sguardo spento e rassegnato, hanno la pelle scura e credono in un dio invisibile. Ma sono uomini, pieni di umanità, portatori di storie e tradizioni, coraggiosi e nello stesso tempo impauriti, spesso nelle mani di bande dal colletto bianco che ne sfruttano la disperazione.
Sono uomini soli, che attraversano la nostra terra per un lavoro maledetto.
La loro esistenza – stagionale – segna il ritmo dei campi, la ciclicità della natura. Arrivano, abitano per un breve periodo questa nostra terra e poi vanno via, non tutti ma la maggioranza. Dormono, mangiano, vivono, pregano e si raccontano le loro storie. Rimandando soli e invisibili, sotto quell’acropoli antica, al riparo dalla pioggia e dal vento con una tenda fatta con le buste di plastica del supermercato. Gli scarti della nostra opulenza sono il loro unico riparo.
Basta, basta, e per sempre basta.
Un disgusto che viene da ogni parte della società. Dal Papa al Prefetto, dalle associazioni e la gente comune. Basta a questo mercato del lavoro che schiavizza l’uomo, lo umilia fino a farlo diventare “bestia” feroce. Scene uscite da una novella di Giovanni Verga (I Malavoglia, 1881), da un dipinto di Gustavo Coubert (Gli Spaccapietre, 1849), da un film di Matteo Garrone (Io capitano, 2023).
La questione, in questo distretto agricolo, quello che afferisce alla valle del Simeto, è diventata insostenibile.
Con il primo morto, con la prima vittima, inizia un percorso complesso che evidenzia come questa morte è orfana di giustizia e identità, troppo comodo perché nessuno rivendica la verità e l’uomo disteso sull’asfalto, privo di vita, non ha nessuno che lo piange, nessuno.
Ma cosa possiamo fare subito? Certamente offrire un riparo più dignitoso, magari in un’area pubblica, vicino la campagna e la città, adiacente a fonti d’acqua. Questo possibile posto potrebbe essere a sud della città, adiacente al parco Primavera, nell’area vicino l’ex bosco della forestale, a due passi dall’autoparco comunale, all’inizio della via Sella. Oppure alla stazione di San Marco, dentro l’ex velodromo, nell’ex macello nell’emergenza del momento. Attrezzando – il luogo scelto – con vere tende, con l’aiuto della Protezione Civile, della Croce Rossa e della Caritas. Ma nel frattempo pensare a soluzioni più sicure, come utilizzare quegli edifici ad oggi non utilizzati, abbandonati, in attesa di momenti migliori, sparsi in città e di proprietà comunale. Sono tanti, purtroppo tantissimi. Nell’emergenza ovviamente.
Ma serve un piano “Mattei” anche per la città di Paternó, come ha fatto Troina per esempio o Bologna. Bisogna incoraggiare processi di cooperazione. Forse serve un impegno più ampio e strutturale, che preveda l’offerta di una residenzialità stagionale più dignitosa. Ma serve un patto tra produttori, imprenditori e comunità. La produzione agricola deve essere anche sostenibile, non solo in termini biologici, ma anche umani. Un marketing specifico che riconosca un prodotto figlio di una filiera etica che cura l’accoglienza dei lavoratori. Anche incentivando questa visione. Magari recuperando le case terrane, abbandonate in centro storico, con piccoli investimenti e affittarle ai lavoratori avendo come garante gli stessi datori di lavoro, per uscire da quel “capolarato” che infesta il nostro distretto produttivo.
Il comune, la Caritas, la Croce Rossa, le associazioni in genere, possono essere garanti di un processo virtuoso, perché noi dobbiamo fare i conti con una migrazione – politica, climatica, economica – che cambierà il volto del nostro continente, come è già successo nel passato, dalla Preistoria ad oggi. Se da una parte la nostra popolazione invecchia e nascono sempre meno figli dall’altra, una parte del mondo si sposta verso nuove terre, per abitarle. Dobbiamo creare alleanze e integrazioni non steccati e fossati. Ma nello stesso tempo interagire con l’Africa in maniera etica. Mettere la testa sotto la sabbia serve a poco. Anzi, serve alle mafie. I figli di questi migranti oggi frequentano le nostre scuole, tra i banchi crescono nuovi cittadini e abbiamo il dovere di essere integrati e non ingrati, condividendo esperienze e tradizioni, come avviene da sempre. Senza rinunciare alle nostre ma scoprendo le altre.