
Bisogna dire le cose come stanno. Direttamente. Anche sapendo che farà male.
La produzione storiografica che avrebbe dovuto raccontare le metamorfosi di questo territorio non ha fatto grossi passa avanti.
Placido Bellia nel 1808, Gaetano Savasta nel 1911 e Salvo Di Matteo nel 1976 sono quanto di più approfondito abbiamo sulla storia della città di (Hybla Major) Paternò. Ci sono stati alcuni tentativi di approfondimento negli anni successivi, praticati fino ad oggi, ma sembriamo incastrati in alcuni stereotipi culturali. Prima dei Normanni non sappiamo nulla e ci siamo affezionati così tanto a Bianca di Navarra e a quel mondo idealizzato che è il medioevo, che abbiamo dimenticato del tardo medioevo (ricco di cultura bizantina) e di tutti quello che ci stava prima. Il periodo arabo non pervenuto, la presenza degli Ebrei solo sfiorata; Siculi, Micenei, Greci e Romani, solo accennati. Un ponte, un acquedotto, un brandello di qualcosa che chiamiamo “terme”.
Ci siamo dimenticati degli scavi di Orsi e di Rizza, delle vetrine dei musei del Paolo Orsi di Siracusa, del museo archeologico di Adrano e possiamo continuare ancora, l’elenco è lungo e inatteso, fino a Berlino. Testimonianze dimenticate di epoca greco-romana. Ci siamo dimenticati persino degli scavi archeologici dagli anni’80 ad oggi. Il misterioso scavo III del 2007 realizzato all’interno del restauro del convento di San Francesco è ad oggi un enigma, nessuno ne parla ufficialmente e la venere di “Perri”, preziosa testimonianza emersa non è stata mai presentata al pubblico fino a farle sembrare un fantasma.
Per anni abbiamo sentito parlare solo dei Normanni, degli Svevi, dei Moncada e basta così. Fuori, tutto quello che non è “cristiano”, fino a cancellare quella straordinaria fase storica che dal III fino all’XI secolo ha cambiato radicalmente la forma del paesaggio. Siamo diventati figli di Bianca di Navarra, di Eleonora d’Angiò e non abbiamo voluto vedere altro. Non solo noi, in giro per il mondo, tra gli studiosi e gli appassionati questa città sembra una chimera, fondata da Ruggero I, governata dalla famiglia Moncada, bombardata dagli alleati. Poi il buio.
Spesso – la città – non appare nelle pubblicazioni autorevoli a carattere accademico, sparita dai radar, in particolar modo dopo gli anni ’50; che strana coincidenza, dopo che abbiamo scavato a destra e a manca, sopra l’acropoli, per tante ragioni, per costruire di tutto, ovunque, dopo tutto questo siamo scivolati nell’oblio. Centuripe, Adrano, Catania, e basta. E meno male che avevamo la torre del castello, meno male. Ci siamo attaccati a quella brava donna che era Bianca di Navarra che poi di fatto abitata a Catania e la nostra unica fortuna è che le sue “consuetudini” nella versione “contea di Paternò” si sono salvate dal nascondimento.
Nell’aria, ancora oggi, c’è quella frase ricorrente che definisce ogni cosa trovata, ogni reperto, ogni porzione di città, come di origine medievale. Un incubo questo medioevo a Paternò, cominciato nella notte dei tempi e ancora in uso. Se non fosse per Alfredo Nicotra che ostinatamente ci ha proposto una figura di metà ‘500, quella Sofonisba Anguissola di Cremona, ancora staremo tutti a parlare di Bianca di Navarra. E poi quell’Antonello Gagini, quasi all’improvviso, ci presenta il primo ‘500 in città. Sembra uno scherzo ma si comincia a guardare prima e dopo Ruggero il Normanno, questo è un buon segnale. Alfio Mirenna, per dire qualcosa di sensato e nuovo, per descrivere scenari più arcaici, deve scrivere un romanzo, non si sa mai.
Bisogna aprire i “vasi Canopi”, senza paura. Bisogna ricostruire la narrazione di un territorio che è stato nascosto, spento, sepolto. Forse bisogna prendere in considerazione che siamo anche “etnei” e non solo “simetini”. Pare poco ma cambia l’orizzonte prospettico e quindi i sentieri della ricerca storica. A dire il vero, Bellia, Savasta e Di Matteo, tra le righe, hanno descritto tanto, usando un linguaggio per molti incomprensibile ed equivocabile. Rileggiamoli.
Ma serve un grande atto di coraggio. Riaprire gli archivi, renderli accessibili a tutti gli studiosi, condividere le ricerche, implementare l’atlante delle conoscenze. Tenere chiusi e difficilmente accessibili gli archivi comunali ed ecclesiali, significa appartenere a quella cultura medievale che Umberto Eco ha mirabilmente rappresentato attraverso la figura del bibliotecario Jorge da Burgos, che impedisce a “Guglielmo da Baskerville” di scoprire la “verità”. Serve anche una presa d’atto, che non si possono fare sempre le barricate, e che le giovani generazioni prima o poi romperanno le catene.
Se gli storici, gli studiosi, gli intellettuali di questa città, insieme ai giornalisti (narratori della modernità) riuscissero a diventare una rete di scopo, pur coltivando i personalismi, forse riusciremmo a fare una cosa utile per una città che qualcuno vuole – piano piano – cancellare. C’è tanto da studiare, scavare e scoprire. A ognuno il suo compito, a ognuno il suo merito, ma impedire questo processo è ormai impossibile. Sempre a condizione che ci sia qualcosa da dire, di nuovo, di originale, perché di copiare e ricopiare dalla storiografia obsoleta, forse anche basta.
Forse dobbiamo chiedere, tutti insieme, di centralizzare gli archivi storici, di attrezzarli per la ricerca, renderli disponibili per gli studiosi e sostenere la ricerca istituzionale e indipendente, acquistando scanner planetari, fotocopiatrici e soprattutto digitalizzando, sia quelli comunali che ecclesiali. Prevedere fondi per agevolare le tesi di laurea e di dottorato, oltre Bianca di Navarra per favore.
Centomila euro per avviare gli scavi archeologici sull’acropoli di Hybla Major, sono solo l’inizio e non servono colonizzatori culturali che indirizzano a propria convenienza le linee di ricerca e di divulgazione. Agli intenditori poche parole, perché già queste bastano per capire che non è più tempo di nascondere e di sviare.