
La Direzione del Teatro Stabile di Catania, quest’anno è stata affidata a Graziano Piazza, regista e attore, apprezzato e conosciuto dal pubblico siciliano per le sue numerose partecipazioni alle rappresentazioni classiche di Siracusa (INDA) e di Catania (Amenanos festival).
Ha ricevuto l’eredità da Luca De Fusco che ha diretto l’ente catanese dal 2022 al 2024. Un’eredità complessa per ragioni varie che ha raccolto con la passione con cui si coglie una sfida e che sta portando avanti mantenendo un equilibrio tra innovazione e tradizione, aprendo alle esperienze del teatro di ampio respiro nazionale ma anche valorizzando le professionalità e le caratteristiche degli artisti autoctoni.
La stagione 24/25 si è inaugurata, come a voler marcare una congiunzione con la precedente direzione, con una regia dello stesso De Fusco che ha curato una rilettura del classico dei classici della letteratura russa: Guerra e Pace di Tolstoj.
Nel mese di febbraio sono andate in scena, in contemporanea, due performance inedite -nella forma drammatica- e decisamente riuscite. La prima è stata Il Male oscuro di Giuseppe Berto, adattamento e regia di Giuseppe Dipasquale, produzione del Teatro Biondo di Palermo, Teatro Stabile di Catania e Marche Teatro. In scena Alessio Vassallo, Ninni Bruschetta, Cesare Biondolillo, Lucia Fossi, Luca Iacono, Viviana Lombardo, Consuelo Lupo, Ginevra Pisani.
Un impresa coraggiosa e difficile quella di portare in scena un romanzo complesso e lungo (quasi 500 pagine) come Il male oscuro di Giuseppe Berto. Difficile perchè si tratta di una consistente narrazione autobiografica, uscita nel 1964, che segue un unico flusso di coscienza attraverso cui l’autore racconta se stesso seguendo la precisa dinamica dell’analisi della propria psiche, procedendo per flashback e libera associazione di idee, nei meandri della memoria per individuare eventi rimossi, traumi, fattori scatenanti di quel lungo stato di nevrosi nel quale lo scrittore era caduto per più di un decennio.
Per sua stessa ammissione, Berto si ispira palesemente a Svevo con la sua Coscienza di Zeno rispetto al quale rintracciamo chiaramente l’intento di concretizzare sotto forma di rivelazione diaristica, le fasi della riscoperta dell’io e il riconoscimento della psicanalisi come tecnica per recuperare frammenti del vissuto e farli emergere dallo sato latente a uno stato rivelato ed evidente. Svevo non aveva concesso alla psicanalisi lo status di valida terapia medica che portasse alla guarigione (l’ironia con cui presenta la figura del Dott. S. E la stessa conclusione della Coscienza ne sono dimostrazione), ma le aveva riconosciuto l’innegabile valore come metodo di indagine e poi di narrazione.
Giuseppe Berto aveva conosciuto la psicanalisi perchè si era rivolto al Dott. Nicola Perrotti per curare la sua nevrosi da angoscia, come gli era stata diagnosticata nel 1954.
Così come accade di fronte allo psicanalista che indaga nella sfera più remota e intima del paziente per svelarne e denunciare le cause della malattia, il percorso narrativo di Berto procede con un viaggio nella memoria e sotto la guida, a volte invadente del medico (anonimo nel romanzo) riconosce i nodi cruciali, le paure, i rapporti morbosi, le delusioni, le frustrazioni che stanno a monte di quell’orrenda condizione dell’esistenza che viene, appunto, definita il male oscuro. Come la terapia procede attraverso la libera associazione delle idee, così procede la struttura narrativa del romanzo di Berto. Romanzo che ebbe importatnti riconoscimenti al momento della sua pubblicazione, fra i quali il Premio Campiello e il Premio Viareggio, e che venne adattato per il cinema nel 1989 con la regia di Mario Monicelli.
Per queste ragioni, legate alla struttura e alle tematiche del romanzo, aver pensato a una trasposizione per le scene è, senza dubbio, un merito di Giuseppe Dipasquale che ha dato alle parole di Berto, legate da un flusso di coscienza imtimistico, una veste concreta. La visionarietà della mente che procede a ritroso seguendo stimoli involontari è diventata la visione del regista che l’ha rappresentata avvalendosi della professionalità e della ricca interpretazione di due attori molto noti, ma che possono sorprendere ogni volta in ruoli diversi, come Alessio Vassallo (conosciuto al grande pubblico per i tanti ruoli televisivi) e Ninni Bruschetta, attore e scrittore poliedrico.
Vassallo ha rivestito i panni del protagonista che di fronte al medico si confessa e riscopre situazioni e rapporti cruciali nella sua vita. Ha colorito il personaggio con la sua fisicità elegante e attraente, la voce calibrata sui diversi passaggi, l’inflessione dialettale e lo smarrimento del rimorso per la morte del padre e per la paternità non vissuta. Ci ha commosso sul finale, senza speranza, dove l’uomo si trova solo, in un rifugio ancestrale e mitico, nella Terra degli aranci, a citare i versi del Vangelo di Luca “nunc dimittis servuum tuum Domine”
A Bruschetta il compito di interpretare il doppio ruolo del medico e del padre, in uno sdoppiamento quasi naturale, secondo un clichè tanto caro a Freud che della psicanalisi fu il padre. A tratti sarcastico, a tratti professionale, a tratti duro e impenetrabile, l’attore messinese ha fatto suo questo duplice personaggio e ci gioca con maestria di grande attore. Sibillina la battuta a proposito dell’esistenza di Dio “il Padreterno non saprei dire, ma il Superio c’è”
Insieme a loro, in scena, una compagnia di attori che incarnano le figure emblematiche della biografia di Berto, come la moglie, l’amante, il primario, la madre (Cesare Biondolillo, Lucia Fossi, Luca Iacono, Viviana Lombardo, Cosuelo Lupo, Ginevra Pisani), tutti molto bravi in ruoli doppi o tripli, molto convincenti in una cifra di caricatura a tratti sarcastica che il regista ha scelto per loro.
Pochi elementi di scenografia (di Antonio Fiorentino) e costumi (di Dora Argento) essenziali, illustrano la ricostruzione d’ambiente; un elemento su tutti ha arricchito l’intera impostazione scenica. Ogni passaggio nel flusso della memoria è accompagnato dal movimento di tendaggi trasparenti di un materiale che sembra celluloide bianca, che si sollevano e si abbassano come a circoscrivere spazi dentro ai quali si collocano gli episodi (l’operazione del padre, l’incontro con la prima ragazza, il matrimonio, il parto della moglie…). Ci è sembrato di seguire il subconscio del protagonista nei meandri nascosti del suo cervello, in una manifestazione surreale ma riconoscibile dei processi biologici del cervello, materia grigia e materia bianca che copre, nasconde, ma poi svela. Così i tendaggi rivelano e nascondono in una luce soffusa – quasi buia a tratti, come è oscuto il male – le scene della narrazione che si è fatta teatrale.
Alla sala Futura è andato in scena Il vangelo secondo Giuda, testo inedito di Giuseppe Fava, adattamento e regia di Claudio Fava. Con David Coco, Maurizio Marchetti, Antonio Alveario, Manuela Ventura,Liborio Natali, Alessandro Romano, e Matteo Ciccioli. Scene e costumi Riccardo Cappello, Luci e video Gaetano La Mela. Produzione Teatro Stabile di Catania.
In prima nazionale assoluta, una sacra rappresentazione laica e moderna, che fu scritta da Giuseppe Fava quaranta anni fa, ed è stata riletta con la regia di Claudio Fava che, con molto rispetto, si è confrontato col testo del padre.
Il vangelo secondo Giuda – ripreso e riscritto da Fava – è uno dei vangeli apocrifi, cioè una delle testimonianze più vive del cristianesimo primitivo, anche se i Padri della Chiesa li considerarono spuri e falsi. In realtà la letteratura popolare di tutti i tempi ha trovato tra questi testi molte delle sue pagine migliori. L’arte figurativa cristiana, l’agiografia, la novellistica medievale hanno largamente attinto a questi racconti intrecciando una sorta di religiosità “sotterranea” traboccante di bisogni umani e di speranze che si riversa nella commovente bellezza dell’arte.
Volendo omaggiare questa tradizione e ripercorrere tale strada, Giuseppe Fava ha scelto la versione di Giuda per riflettere in una chiave attuale sulla Buona Novella, scegliendo il punto di vista del più bistrattato dei seguaci, il traditore, l’infame, Giuda.
Quest’anno, nel centenario dalla nascita del grande giornalista catanese assassinato dalla mafia, davanti a quello stesso teatro che oggi (e sempre) lo ricorda, nel 1984, il Vangelo secondo Giuda, rimasto inedito, è stato portato in scena con l’intenzione di sottolineare il profondo messaggio di umanità legato all’interpretazione moderna.
La Buona Novella è ambientata a Catania, in una città popolare, misera e bisognosa di riscatto. Giuda è un “poeta”, emarginato, alienato che cerca di sopravvivere ogni giorno e fare sopravvivere la sua famiglia, la moglie Elisa, che lo ama ma è stanca della miseria e della fatica di ogni giorno. E’ un sognatore, e si lega, per caso, al gruppo dei pochi seguaci di un maestro che promette la rivoluzione. Sono Giovanni, Matteo, Pietro, Tommaso che gli presentano l’uomo venuto a portare giustizia, pace, fratellanza. In una cornice grottesca e surreale, nella periferia coi palazzoni di cemento e i sobborghi malfrequentati, si svolge la trama di un racconto noto, quindi riconoscibile, ma rivisitato.
Giuda è il seguace che tradisce Gesù e da sempre è condannato, giù nella Giudecca dove lo colloca Dante, e nelle bestemmie dell’immaginario comune. Il Giuda di Fava è un uomo debole, stanco di portare il peso della colpa e, in un salto anacronistico ma verisimile, è uno di noi, un cittadino della “Milano del Sud” dove si è trasferito da un paese di montagna, per trovare una strada, la sua strada. Si invaghisce di una prostituta, bella, avvenente, Maddalena, e per lei cerca i soldi, i trenta danari necessari per pagarla.
Dall’incontro col Maestro, apprenderà nuovi messaggi di vita, riconoscerà il bene dal male.
Pur nel linguaggio forte, a tratti scurrile, pur nella caratterizzazione dei personaggi – Gesù in salopette, Pietro un po’ clochard, Tommaso gobbo dal ghigno sarcastico… – la narrazione di Fava ci fa entrare nel mondo borderline di Giuda. Ci fa sentire in mezzo a loro, o, forse sono loro che scendono in mezzo a noi.
La chiave della regia di Fava, Claudio, è parsa come voler sottolineare l’apparente contrasto tra lo scavo psicologico sul protagonista e una cornice trasgressiva nella costruzione scenica. Pochi elementi di scena (di Riccardo Cappello), una complessiva drammaturgia straniante, che ricorre a segmenti musicali da discomusic, i movimenti dinamici dei personaggi sul palco che conducono il filo della narrazione. Il contrasto sembra creare un iniziale smarrimento che, lentamente, si attenua quando il personaggio-Giuda si confessa, e coinvolge lo spettatore.
Il perno della rappresentazione è David Coco che ha dimostrato, ancora una volta, una collaudata intesa col regista e ha interpretato questo Giuda umano, con delicatezza e un pizzico di ironia. L’unica donna in scena, Manuela Ventura, veste i panni della moglie amorevole e seria, Elisa, e di Maddalena, conturbante ma turbata dalle lusinghe di Giuda e poi delusa dalle scelte di questo. Riesce a passare in pochi secondi dalla compostezza della prima figura femminile al fascino della perdizione della donna simbolo, nella cultura cristiana, della femminilità che viene redenta.
Insieme a loro cinque attori in perfetta armonia, maschere moderne che incarnano ruoli antichi, valorizzando il senso di un testo carico di battute universali dense di spunti di riflessione ed esame, che, proprio come il messaggio evangelico, veicola storie di miracoli per farsi allegoria dell’umanità.
I prossimi appuntamenti saranno con colossi veri della storia del teatro come Gogol, Bergman, Varagas Losa, Checov, Martoglio e ancora tanto da aspettare con curiosità e interesse. FOTO DI ANTONIO PARRINELLO