L’anno che si è appena concluso è stato particolarmente ricco per quello che riguarda le proposte letterarie siciliane.
Sono stati tanti i romanzi pubblicati nel corso del 2024 che hanno raccontato frammenti di storia siciliana partendo da vicende individuali e approfondendo la ricostruzione di epoche significative nel percorso della nostra isola.
Ne scegliamo tre che ci hanno particolarmente appassionato e che hanno, per una assoluta coincidenza, degli elementi in comune. La prima cosa, la più evidente, è che sono opera di scrittrici molto legate alla loro terra e che sono romanzi storici.
Partiamo da L’IRA DI DIO, di Costanza Di Quattro, (ragusana, scrittrice, giornalista e drammaturga, già autrice di La mia casa di Moltalbano, Donnafugata, Giuditta e il Monsù, e Arrocco siciliano) pubblicato da Baldini e Castoldi, che racconta la pagina più drammatica e atroce del Val di Noto: il terremoto che l’11 gennaio del 1693 devastò tutta la costa orientale siciliana, tra Catania e Siracusa e ne ridisegnò la morfologia.
L’ira di Dio è quella che temono tutti coloro che abbiano ricevuto una educazione cristiana. Il Dio del Vecchio testamento era un Dio vendicativo e la religione che nasce da Paolo di Tarso e da S. Agostino ha fatto sempre leva sul rimorso per il peccato compiuto come quello da cui può scaturire la punizione, anche terribile, anche spropositata, di Dio.
Nel romanzo della Di Quattro il peccato imperdonabile e scandaloso al centro della vicenda è un peccato d’amore. Un amore grande, sincero, ingovernabile ma impossibile e peccaminoso perché è quello che nasce fra un parroco, Padre Bernardo, appartenente a una famiglia aristocratica e potente -L’Arestia Corbara- e una criata, Tresina, che ha subito violenza ed è scappata dalla casa dove lavorava e viene soccorsa e accolta nella parrocchia come perpetua.
Bernardo, prete dalla vocazione poco spontanea, ha subito per la ragazza un’attrazione fortissima. La guarda come fosse una madonna dipinta, è affascinato dalla sinuosità del suo corpo, dalle curve del seno che hanno la bellezza candida dell’innocenza ed emanano femminilità materna. Lui che non ha conosciuto la dolcezza di una madre poiché la sua, Donna Ninfa, era una donna austera, chiusa nel lutto per il marito e terribilmente bigotta.
Quell’amore tanto indomabile perché tanto innocente, creerà lo scandalo in paese, nella canonica, che verrà abbandonata da quasi tutti i fedeli, nella famiglia di Bernardo e nella curia. Tresina sarà ritenuta un diavolo che si è impossessato dell’animo del prete e lui un indemoniato da esorcizzare.
Quasi noncuranti delle conseguenze della loro relazione, i due vivono del loro amore con una spontanea naturalezza e slancio. Per loro non è peccato e questo Bernardo lo grida a tutti: alla madre che minaccia di diseredarlo, alla curia, ai parrocchiani, al fratello Eligio che lui adora e rispetta. Rifiuta di confessarsi con Padre Costante e sostiene che non può chiedere perdono di un peccato “che ama”. Un peccato che lo porterà anche alla dolcissima gioia della paternità, vera esperienza del sacro.
In un contesto narrativo avvincente la scrittrice ci spinge a una riflessione sul tema del peccato. Il riferimento a S. Agostino, alla Città di Dio, che il parroco recupera dopo il sisma e legge e medita, conduce il lettore verso il conflitto marcato nella vicenda tra il valore dell’amore e il senso di colpa e di oppressione in un’epoca di Inquisizione e oscurantismo.
Popolano il romanzo, insieme al parroco protagonista, una schiera di personaggi tutti interessantissimi, fra i quali la giovane Trisina, apparentemente fragile ma dotata della forza della femminilità e della maternità.
Fra tanti altri rimane impressa, poi, la figura di Gasparino, al quale la Di Quattro affida un ruolo decisivo in un’ottica storica, quella del passaggio dalla Sicilia feudale secentesca all’opulenza magnifica della ricostruzione post terremoto, col trionfo del Barocco del Val di Noto. Gasparino diventerà uno degli architetti che guideranno la ricostruzione.
L’ira di Dio si abbatte sui peccatori, la distruzione totale delle case e la morte, la fame e le malattie che ne seguirono, sono viste da tutti come un segno della vendetta di Dio. Bernardo perde tutto, gli rimarrà solo Eligio, ma dallo sconforto e dalla disperazione lui disegnerà un progetto di ricostruzione.
La cifra emozionante di questo romanzo -oltre alle belle pagine dedicate alla descrizione de terremoto- la troviamo nella celebrazione della bellezza declinata secondo lo stile Barocco che ha plasmato l’architettura di tutta la Costa Occidentale dell’isola. “Le linee devono essere sinuose ma essenziali, funzionali a una città moderna e imponenti come una città antica”.
L’intero romanzo è’ una esaltazione della bellezza originale e irregolare del Barocco, è un omaggio a una terra affascinante, è una descrizione particolareggiata che si svolge insieme alla vicenda dei personaggi che, per sua stessa ammissione, la scrittrice ha inventato ma ha reso verisimili e concreti in un linguaggio fluido ed elegante, concreto e colorito al contempo.
Il secondo romanzo colloca la sua vicenda in un’epoca di poco successiva a quel terribile terremoto, in un momento di ricostruzione delle città e della civiltà, in senso culturale.
E’ LA DOLCIERA SICILIANA, di Annamaria Zizza, Marlin editore, che potrebbe avere come sottotitolo, Una mavara dagli occhi di mandorla”.
Si tratta, di una vicenda siciliana -come dice il titolo- che dichiaratamente prende inizio nel 1739, ma non sarebbe esatto parlare di romanzo storico quanto piuttosto di un romanzo tuffato nella storia, che trasuda di riferimenti e personaggi, eventi, tutti conosciuti e riconoscibili per chi conosce la storia del Settecento e Catania e Modica e Milano e un po’ di letteratura o architettura. E per chi non avesse frequentazione di questi luoghi e di quei tempi, la narrazione offre una tale varietà di riferimenti che la ricostruzione di quel frammento di secolo -articolato e fascinoso, rivoluzionario e conservatore a un tempo- è precisa e abbellita dalla fantasia.
Maria è la protagonista, la dolciera siciliana, nata a Modica, cresciuta in un orfanotrofio perché figlia di NN, dove impara i primi rudimenti della cucina e che, dopo un tragico incontro, una violenza subita, viene accolta nella ricca dimora di Tommaso Campailla, uomo illuminato, medico autodidatta, filosofo, filantropo, una delle maggiori personalità che hanno dato lustro alla ricca e nobile città siciliana, un tempo Contea. E la seconda protagonista è in effetti Modica con la sua bellezza barocca, le strade, i ponti, le scale, i campi coltivati a ulivi e mandorle, i muretti a secco, le chiese, l’unica città in Sicilia (e forse non solo) ad avere due Chiese madre, due “duomi”, San Giorgio e San Pietro, le grandi contraddizioni sociali fra una plebe poverissima e un ristretto gruppo di ricchi proprietari terrieri. Modica Contea strategica per le sorti politiche, economiche e intellettuali della Sicilia. Modica la regina del cioccolato, quello degli antichi Atzechi, preparato a freddo, granuloso di zucchero e vaniglia. Nella casa dei Campailla Maria diventa criata, termine che nel dialetto siciliano indicava la sorte delle ragazze che andavano a servizio perché erano, appunto, figlie del mondo, creature senza appartenenza. Di lei la Zizza segue la crescita, la formazione, la devozione verso chi l’ha accolta e protetta, l’iniziale fragilità e la maturazione che la porterà al coraggio di una scelta dolorosa, dura ma anche astuta. Maria cresciuta, passata attraverso la prova della malattia, la sifilide, guarita grazie alle cure miracolose di Campailla, lascerà Modica, si trasferirà a Catania e diventerà Mario, per poter essere presa a servizio dalla più potente famiglia nobile del tempo, quelli che, per ragioni dettati dalla fiction che il romanzo è, diventano qui i Principi di Valguarnera (Paternò Castello Principi di Biscari). Con un viaggio su un carretto, Maria arriva a Catania, la terza protagonista del romanzo. La città che in quegli anni si stava ancora scrollando di dosso le macerie del terremoto che l’aveva distrutta e si stava ricostruendo sotto la guida esperta dell’architetto Vaccarini e di molti altri artisti e artigiani che le diedero quell’aspetto opulento, maestoso, elegante e stravagante della Catania barocca.
La catanese Annamaria Zizza ci consegna il volto della sua città ricostruito con amore di figlia e interesse da studiosa, che ha trascorso giornate intere negli archivi storici e nelle biblioteche, delineando genealogie e ipotizzando rapporti e legami tra personaggi reali, verisimili e fittizi. Una Catania che puzza (oggi come allora) di fogne, di popolo, di pesce marcio, di malattie, di miseria e di ignoranza, ma anche una Catania che profuma, di gelsomino, di alghe di mare sbattute sulla roccia nera, di essenze di zagare nei decolleté delle dame e di cannella, anche qui, di zucchero e di mandorle, di dolci consumati nei sontuosi pranzi e nelle colazioni e nelle feste che a casa dei principi di Valguanera erano un rito frequente.
Al Palazzo principesco che si affacciava sul mare con splendidi terrazzi adornati di bassorilievi e fregi, la ragazza che nasconde la sua vera identità, incontrerà Giuseppe Ripetti, un poeta lombardo del quale la Zizza segue tutta la vicenda dall’infanzia in una Lombardia (manzoniana) fulcro di quell’Illuminismo in fioritura, che studia a Milano presso la scuola delle Arcimbolde e diventa precettore “di amabil rito”. Riconosciamo subito i tratti biografici di Giuseppe Parini, massimo poeta del Settecento.
Inevitabilmente tra Mario, che si rivelerà essere Maria “una mavara dagli occhi di mandorla” e Giuseppe, ospite a palazzo, scoppierà una scintilla di attrazione, di passione, di amore non-amore, perché non rivelato. Il tutto in un finale sorprendente, toccante e magnifico.
Come ha già dimostrato nei precedenti romanzi, la Zizza è capace di una scrittura sincera e lineare, fluida e sapiente, in equilibrio tra descrizioni pittoresche e voluttuose, scavi psicologici e frammenti erotici, riferimenti colti e il gusto per una parola rotonda, precisa come una lama e lucida come lampi di dolore, di fede, di gola, di amore.
Rimane da trattare del terzo romanzo, quello, forse, più inusuale per la scelto del periodo preso in analisi, poco conosciuto, poco approfondito nei testi letterari: il Trecento.
La scrittrice in questione è Simona Lo Iacono (abbastanza conosciuta al pubblico dei lettori per Il morso, La tigre di Noto, Il mistero di Anna) e il romanzo è VIRDIMURA, pubblicato da Guanda.
Virdimura è la prima donna medico che ottenne la “licenza per curare”, per poter esercitare quella che allora si riteneva fosse un’arte, una sorta di alchimia, la medicina, in Sicilia, in un’epoca tanto lontana ma ricostruita con aspetti culturali e antropologici sorprendenti.
La storia comincia con una confessione che la donna, ormai anziana, pronuncia di fronte alla Commissione dei giudici che ascoltano il racconto di tutta la sua vita e le ragioni di una scelta tanto ardita e anche scandalosa ai tempi.
Riallacciando il filo della memoria, Virdimura ricorda la sua nascita, l’amore con cui la madre la mise al mondo, morendo dopo il parto, e il padre, “profumato di vento” che si prese subito cura di lei. Siamo a Catania, nel 1302, allora città cosmopolita, brulicante di ebrei, musulmani, arabi, cristiani, tutti in armonia e dislocati nei quartieri che, allora, definivano i confini urbanistici dei quartieri, della spiaggia, delle strade che portavano fuori, verso la campagna o la montagna.
E’ il padre, Urìa a chiamare la bambina Virdimura, perché con quel nome vuole lasciarle un messaggio d’amore, un’eredità di carattere: forte come le mura che cingono Catania, verde come il muschio che affiora dal duro. E lei, già bambina, accoglie quell’eredità seguendo il padre che va a curare i malati, senza farsi pagare, che raccoglie piante e fiori dal potere taumaturgico, che prepara impiastri e pozioni, taglia la carne malata, cuce lembi di pelle, guarisce corpi e anime.
Simona Lo Iacono fa parlare la protagonista riconoscendole il merito di aver compiuto una rivoluzione pacifica, di aver segnato la storia e di essere stata una donna che ha precorso i tempi, talmente autentica e amorevole in tutte le sue scelte da sembrarci moderna e vicina a noi, lei così dolce, così forte e così libera. La strada che intraprende è difficile e ostacolata in tutti i modi, dalle convenzioni, dalle leggi dai difensori di tutti i fondamentalismi, sia religiosi che morali. La sua generosità la porta ad amare, ad aiutare i bisognosi, a soccorrere le donne, soprattutto quelle vittime di violenza e sopraffatte da pregiudizi e prevaricazione. Si dedica anche alla chirurgia e trova la forza e la capacità di restituire alle donne violate la verginità persa, senza la quale non potrebbero più avere un futuro. Si difende davanti ai giudici per questo, “non sentite le grida degli ultimi che sale dalla terra?”
Insieme a lei altri personaggi si muovono sulla scena di questo tempo che assume il sapore di una favola, per la magia del contesto e delle descrizioni (paesaggi, figure cariche di umanità, suoni e profumi) ma anche il senso della ricostruzione storica puntuale e carica di dettagli. L’attenzione con cui la scrittrice tratta Virdimura e il padre medico, l’amico che segnerà la loro vita, l’amore che la travolge, le compagne con cui costruisce e conduce un ospedale “pubblico”, scaturisce, non c’è dubbio, dalla sua competenza di magistrato che si occupa di minori e famiglie. L’umanità presente in questa narrazione è carica di tutte le sfumature: troviamo la filantropia e la denuncia, l’amore paterno e la maternità negata, la persecuzione e il potere, l’amore e la passione.
Il lettore che si avvicina a questo romanzo viene trascinato in un luogo affascinante dove una scrittura che si fa confidenza regala emozioni, commozioni e curiosità tali da legarlo fino all’ultima pagina e farlo restare ammaliato.
Bisogna riconoscere a queste tre scrittrici il merito di aver scelto il codice del romanzo storico, dell’approfondimento antropologico ma con la sapienza poetica dello scavo psicologico e dell’affresco dei sentimenti.