Il riuso degli edifici pubblici: il caso Torre Ardizzone a Paternò

Il riuso degli edifici pubblici: il caso Torre Ardizzone a Paternò

Ormai da due anni, la torre contemporanea nel quartiere Ardizzone a Paternò, simbolo della città nuova, emblema di una cultura urbanistica e architettonica degli anni ’70 e ’80, è solo un fantasma.

Un ricordo per tanti, il segno di una rinnovata attenzione per le periferie, che la classe dirigente di quegli anni voleva fortemente. Uno spazio civico progettato per diventare una delle più importanti polarità urbane, con uffici, spazi commerciali e una galleria d’arte contemporanea di grande spessore culturale. Piazze, verde, parcheggi, architetture iconiche dominate da quella terza torre che svettava in città, dopo quella Normanna e di poco più giovane quella del palazzo di ferro all’ingresso della città di levante.

Oggi tutto sembra perso, abbandonato, senza una precisa identità. Rimangono ancora alcuni uffici, ma l’aria che tira è quella della dismissione. Con tutto quello che significa sul piano sociale e culturale. La galleria di arte moderna è morta, uccisa da una miopia politica negli anni ’90. Uccisa e violentata, trascinata in giro per la città fino a farla morire. Un pezzo di storia che viene cancellata ideologicamente, sostituita senza pietà.

Le ragioni dell’abbandono della torre amministrativa che accoglieva tutti gli uffici comunali ed era sede del Consiglio Comunale sono quelle dell’adeguamento antisismico. Ma sappiamo come finiscono certi lavori in città, spesso rimangono incompleti o per mancanza di fondi o per vandalismo. Qualsiasi cosa abbandoniamo prima o poi viene distrutta e compromessa. Essere presenti in quel quartiere era un gesto politico importante, oggi disatteso, tradito, e le conseguenze saranno presto evidenti, dopo le 14.00 quello spazio urbano, diventa una terra di nessuno, e quell’architettura meritevole di attenzioni culturali si perde nella tempesta dell’indifferenza.

Ma oggi cosa possiamo fare? Soprattutto pensando che gli impiegati comunali, non sono più così numerosi come in passato e con l’opportunità di rendere digitali molti servizi? Sindaci e Presidenti del Consiglio, almeno da un decennio e in particolare recentemente hanno avviato un processo di decentramento, di spostamento da quel polo amministrativo verso altre parti di città. Come meno impiegati e più digitalizzazione il processo è possibile e forse auspicabile. Ma merita una riflessione e una precisa programmazione per evitare che sia solo la conseguenza di un narcisismo personale o la conseguenza di una criticità strutturale.

Ricollocare gli uffici amministrativi in tutta la città è l’opportunità per avviare nuovi processi rigenerativi, diffusi e strategici, riutilizzando i manufatti esistenti, specie quelli che hanno potenzialità in termini di parcheggi. Oggi il Consiglio comunale occupa Palazzo Alessi in piazza Umberto, una degli spazi più iconici del centro storico e Sindaco e Giunta – da poco – hanno impegnato l’ex palazzo di Piazza della Regione, storica sede degli anni ’60 e ’70 in quella parte della città che era il centro commerciale più vivace. L’idea è buona anche pensando alla stazione della metropolitana che è adiacente al palazzo municipale ma serve una strategia complessiva che riordini e ricollochi altri uffici comunali adesso sparsi senza un preciso disegno e senza coerenza.

La prima domanda da farsi è, certamente, cosa fare della vecchia torre e degli spazi adiacenti? Quale nuova funzione localizzare nei nove piani dell’edificio attualmente vuoto? Anche pensando che lo stesso si troverà a pochi centinaia di metri dalla stazione principale della metropolitana in zona Ardizzone? Abbiamo il dovere di pensarci e magari investire nel recupero dell’edificio della Protezione Civile, adiacente alla torre e attualmente vandalizzato. Ma forse serve anche prendere atto, prima di di pianificare la città, della consistenza del patrimonio pubblico mappando terreni, edifici, usi civici e servitù e, alla luce di questa consapevolezza complessiva, immaginare una nuova rete di servizi e funzioni per l’intera città, evitando contraddizioni e sovrapposizioni e peggio ancora sprechi e discrezionalità sospette nel governo del territorio.

La domanda, quindi, è cosa vogliamo fare dei contenitori disponibili in città? Magari includendo quelli di proprietà regionale, statale e metropolitano? Il tema della consapevolezza della proprietà pubblica è una priorità da perseguire e nascondere questo patrimonio alla conoscenza pubblica non è certamente utile. La politica dovrebbe interrogarsi e immaginare una modalità per raccogliere idee evitando di affidare a destra e a sinistra terreni ed edifici senza un piano complessivo.

Magari con coerenza e democrazia, utilizzando la manifestazione d’interesse come strumento selettivo, azzerando gli attuali impegni e affidamenti, frutto di occasionalità e discrezionalità. Per fare le cose giuste per tutti. Per rivalutare il patrimonio in chiave pubblica, utilizzando le energie private con un patto di corresponsabilità con la società civile, le imprese e il terzo settore.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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