Entriamo subito nella questione. Il vecchio terminal aeroportuale di Catania – dismesso – adiacente all’attuale, è un’opera di Riccardo Morandi, lo stesso progettista del ponte crollato a Genova.
Detto così, per l’opinione pubblica potremmo chiuderla qui. Perché in questi giorni il dibattito, tra noti e meno noti protagonisti della cultura architettonica catanese, è incentrato sul tema: abbatterlo – il Morandino – per realizzare un nuovo terminal o ristrutturarlo – nell’ottica del restauro dell’architettura contemporanea?
Usciamo dalla dimensione emotiva e sgombriamo i pregiudizi. Il destino del ponte di Genova non ha nulla a che vedere con quest’opera catanese ma rimane un’ombra nella nostra mente che condiziona, anche inconsapevolmente. Gli addetti ai lavori sanno benissimo, che non solo il confronto è inopportuno ma a riflettere bene, sul ponte crollato, in tanti hanno speculato maliziosamente sul progettista scomparso, sapendo benissimo che il crollo non è certo dovuto a lui.
Torniamo a Catania. Il tema vero è che l’aeroporto è oggetto di una trasformazione radicale per adeguarlo a standard più performanti. I progetti attuali prevedono espansioni, adeguamenti, potenziamenti ecc. della struttura aeroportuale, compreso le aree adiacenti, per offrire più servizi. A partire dal collegamento con la metropolitana che trasformerà questo spazio in un terminale territoriale della mobilità. Una rivoluzione, attesa da anni che potrebbe creare quella internodalità indispensabile per elevare la città di Levante ad hub mediterraneo.
A questo punto, concentriamoci sul tema del giorno. Cosa fare di una vecchia struttura – realizzata negli anni ’70 – in calcestruzzo armato, progettata da Riccardo Morandi? Ha un tale valore di testimonianza storica e culturale da imporre la sua conservazione e quindi il restauro? E questa eventuale restauro è tale da garantire le prestazioni richieste a un moderno terminal aeroportuale? E ancora, i costi per garantire il mantenimento dell’opera e la sua trasformazione funzionale, impiantistica e strutturale sono sostenibili? Da una parte c’è chi lo vuole restaurato e dall’altra chi ha già programmato la sua sostituzione.
Ovviamente la questione è più complessa e i protagonisti pongono questioni serie. Il tema principale è l’attribuzione di valore a questa architettura. Valore che non è emerso in maniera evidente in questi decenni di abbandono. Attribuzione che afferisce alla nobiltà del progettista, alla testimonianza della tecnica costruttiva, alla qualità dello spazio. Valori evidenti ma che il progetto di riconversione snaturerebbe per ragioni oggettive dovute agli adeguamenti strutturali, impiantistici e funzionali. Tutto questo con un’aumento di costi considerevoli. Per farla breve, l’adeguamento stravolgerebbe lo spazio e la struttura, lievitando i costi senza il vantaggio della conservazione.
Massimo Cacciari, il filosofo – lo citiamo strumentalmente – dice che conservare tutto significa non conservare nulla. E appare evidente che quest’opera non è certamente la sala Paolo VI di Pier Luigi Nervi. E qui vale introdurre un confronto estetico-tipologico che serve per insinuare il dubbio. Conserviamo quelle opere che per ragioni diverse sono testimonianze rilevanti. Certamente la nostra attenzione alla conservazione è a intermittenza. Siamo capaci di sacrificare o peggio ancora girarci dall’altra parte per opere o frammenti di città e paesaggio molti più rilevanti, sacrificandoli sull’altare della modernità. Ma è proprio questo il punto, il rapporto tra antichità e modernità. Lo scarto temporale che spesso enfatizziamo per giustificare l’azione trasformativa.
Si discute animatamente sulla necessità di trasformare – attraverso le sostituzioni – i centri storici con architetture contemporanee. Si reclama il diritto di innestare, ibridare, ampliare le architetture storiche e monumentali compreso i paesaggi urbani e naturali con interventi importanti, anche sostituendo in parte l’esistente e qualche volta ci lamentiamo per la resistenza a tali azioni. E per ognuna di queste azioni abbiamo processato il tema progettuale. Abbiamo valutato e scelto in funzione dell’attribuzioni di valore, di unicità, di opportunità e convenienza. Abbiamo scelto.
Ma non sempre con oculatezza e onestà intellettuale. Spesso per impeto collettivo e mediatico. Basti pensare alla demolizione dell’ospedale Santa Marta a Catania e al risultato finale in termini di spazio, di sottosuolo e aderenze. Sono tanti i casi di miopia collettiva. Senza voler aprire il secolare tema sul futuro degli archi della marina. C’è un’onda emotiva che risulta incostante, qualche volta dormiente ma che improvvisamente ritrova energie in alcuni episodi che diventano iconici. Come il terminal di Catania, il “Morandino”.
Sarebbe utile sentire – oltre chi si batte per conservare tutto – i progettisti della più recente trasformazione e tentare di capire si ci sono altre vie, di più ampia condivisione. Rimane il fatto che la città è in continua trasformazione e alcuni passaggi sono inevitabili. La conservazione – oggi – può essere praticata con nuovi strumenti, digitali, anche utilizzando il “metaverso”. Oppure dobbiamo prendere atto che certi edifici non possono essere adeguati, semmai “musealizzati”, spostando altrove le nostre energie, sapendo che comunque – ogni intervento – modificherà il paesaggio esistente.
Credo che la “pratica del progetto” rimanga lo strumento necessario per decidere, per scegliere e il confronto dialettico, esclusivamente ideologico, può servire a innescare il dibattito, non certamente a definire i termini delle questioni. Non ci rimane che aspettare un incontro dove poter vedere e valutare le diverse ipotesi. Per scegliere, disponibili a perdere qualcosa delle nostre posizioni originarie.
Aeroporto di catania? …una schifezza di infrastruttura