Il concerto di Giovanni Allevi a Palazzo Reale di Palermo: la sua umanità diventa indirizzo di vita

Il concerto di Giovanni Allevi a Palazzo Reale di Palermo: la sua umanità diventa indirizzo di vita

Una sera d’estate, il cielo terso, all’interno di un cortile reale.

In uno spazio dove si sfiorano mille intimità, sguardi emozionati e maliziosi. Mani che stringono altre mani, sentieri ridondanti e pietre solcate dalla storia. Un ritmo preciso, geometrico, fatto di colonne, archi, cornici. Uomini e donne che entrano, escono, sostano, aspettano. A palazzo reale, o dei Normanni, dove Federico II trovò casa e corte. Oggi sede dell’Assemblea Regionale Siciliana – guidata da Gaetano Galvagno – custodisce tesori e misteri. Un atlante di gioielli preziosi, che hanno come baricentro la Cappella Palatina, un libro di pietra dorata che racconta l’intima relazione tra il potere terreno e quello divino. Dentro questo spazio, quasi metafisico, la Fondazione Federico II ha ospitato Giovanni Allevi, musicista, filosofo, scrittore.

Il concerto di Giovanni Allevi a Palazzo Reale di Palermo: la sua umanità diventa indirizzo di vitaUna parentesi emozionale, un intervallo leggero, una riflessione interiore. Lui, il pianoforte, la donna sul palco e il pubblico, dentro una cassa armonica, un cortile cosmologico che guarda verso il cielo, verso dio, verso la luna di notte. Un concerto parlato, un’analisi psicologica che ha indagato la profondità del dolore, della sofferenza e della possibile via d’uscita. Fragile, lieve, aereo. Giovanni Allevi danza con le mani, oltre la musica come se disegnasse uno spartito nell’aria. Un continuo rimbalzare tra il pianoforte e la conversazione, dove si confessa, si apre al pubblico e mette a disposizione di tutti il senso sacrale della malattia.

Autorevolezza, dignità e grazia. Sono l’eredità che ci lascia. Un monito, un suggerimento per chi vuole servire il popolo, la gente, la cittadinanza. Una carezza alla politica, nel suo tempio, dentro le sue viscere. Sguardi, corpi roteanti, piccoli salti, sorrisi ingenui come quelli di un bambino. Poi la musica, le arie, il ritmo, le storie. Uno spartito che invade l’anima di tutti. Pervade i cuori, rapisce le sofferenze e ci riporta a dio. Lo sguardo verso il cielo, verso il ritmo degli archi, dentro un quadrato perfetto. Piano piano non serve più guardare ma sentire, gli occhi si chiudono per aprire l’anima, accompagnata dalle note, dalle mani fluttuanti nell’aria, dal profumo d’estate che invade ogni cosa.
Il Presidente ascolta, insieme ai suoi ospiti. Ascolta e guarda, e sogna. Forse un mondo migliore, la fine della guerra, il trionfo dell’arte. Perché l’arte deve salvare il mondo. Dentro tutto questo, sembra ovvio pensare che le guerre, sono la negazione di tutto. Nasce il desiderio di immergere i grandi della terra in quest’atmosfera per dimostrare che questa è l’unica via per la felicità. Forse è questo che provava – alla sua corte – Federico II. La consapevolezza che le arti sono lo strumento per praticare la pace, la solidarietà, la mitezza: poesia, danza, musica.

Abbiamo bisogno di tutto questo, ne abbiamo bisogno tutti. L’eredità di questo momento è semplice: bisogna esportare questo tipo di esperienze a tutti. Educare – dice Allevi – all’autorevolezza, alla dignità e alla grazia se si vuole essere imperatori, generali o soldati. Il potere e la politica dovrebbero capire questo semplice assioma.

Ma ogni ricchezza culturale, ogni momento di felicità, necessita di un costruttore, di un magister. Colui o colei che dedicano la loro arte a costruire queste occasioni di bellezza, in silenzio, quasi sottovoce. Dentro quella sera, dietro le colonne, lontani dagli sguardi, uomini e donne correvano come elfi per regalare a tutti l’istante, il momento, un frammento di felicità. Lo scopo non era ostentare e nemmeno elevarsi a classe nobile, lo scopo era educare, sollecitare, istruire i presenti all’esercizio dell’arte. Un monito, un indirizzo per tutti, per fare, per diffondere, per promuovere l’arte nella nostra terra, per tutti.

Da dentro, dal centro, seduti, si poteva percepire una rete sottile di relazioni, di intrighi ma nello stesso tempo di morbidezza, suggellata da un conviviale sobrio ma intenso, dentro un giardino, tra alberi secolari, in una notte d’estata a Palermo. Lo sguardo attento colleziona volti, storie, piccole movenze e danze inconsapevoli come fosse un teatro della vita. Attori e comparse, spartiti e sceneggiature, un festival della rappresentazione e della narrazione, dove per un istante il protagonista è la musica e la fragilità di Giovanni Allevi, la sua umanità che diventa indirizzo di vita. Soffice, intenso, emozionante, profondo. Mimico e attoriale. Fino a penetrare la nostra memoria, fino a sconvolgerla per renderci permeabili alla socialità.
Il Presidente Gaetano Galvagno, insieme alla sua squadra, ha seminato una pianta nuova, un “modus operandi” che si riallaccia alla tradizione federiciana. Un gesto semplice (il concerto) che apre a nuove prospettive, che impone un cambio di direzione, che sollecita verso l’esportazione della bellezza nei territori – anche periferici – della Sicilia. Un regalo inatteso, degno di essere raccontato. Un manifesto politico.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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