Sembrava un concerto, di quelli che si fanno nelle parrocchie piene di gente vestita a festa.
Sembrava solo un incontro tra vecchi amici, in un pomeriggio di maggio, dentro una chiesa colma di fedeli. Sembrava, ma non lo era. Come se fossero delle vere prove di canto della “Corale Alleluja”, nata venticinque anni fa, dentro quella terra fertile che è la comunità di Santa Barbara a Paternò, che ha celebrato la sua esperienza di comunità. Lo ha fatto con uno spettacolo straordinario, coinvolgente e commuovente.
Un evento semplice, sincero, privo di fronzoli istituzionali. Fatto per la gente, quella che desidera condividere la gioia, quella che non “si conta”, che non deve necessariamente apparire. Un evento realizzato dentro l’ecclesia, dentro uno spazio sacro, lontano dai vicoli stretti e bui della città, dove spesso si consumano agguati e strategie inutili all’umanità perpetuate da figure allungate dall’ombra. Uno spettacolo vivo che ha celebrato la vita con sincerità e semplicità. Lontani dai portatori di tristezza e dai manipolatori di gente. Un evento che è stato un monumento alla bellezza, una preghiera, una narrazione.
Una comunità che cresce e si evolve, per animare la liturgia, per coltivare la speranza, per consolidare l’identità. Un seme, un germoglio, un tronco, un fiore. La metafora dell’albero, che viene piantato a terra e coltivato fino a fiorire. Coltivato e curato, come ogni preziosità. Una comunità di musici gioiosi e utili.
Una serata straripante di emozioni, di allegorie, di rimandi alla vita.
Una preghiera musicata e diretta da due “templari”. Spalla a spalla, guardando due orizzonti opposti, l’uno verso il coro e l’altro verso l’assemblea. Ammantati di un drappo scuro, quasi a determinare un solo corpo, dentro un ottagono sacro, lungo quell’antica strada che porta a Roma o a Gerusalemme, la nostra Fabaria. Erano il ritmo e la melodia, attraverso una danza di mani e di sguardi, illuminati dalla voce del solista.
Tra loro e il coro un atlante di sorrisi e di sguardi tenerissimi. Un’epifania di musica e armonia, lungo un sentiero tracciato da tempo negli ultimi mesi. Scenografia, coreografia, repertorio, ritmo e tensione emozionale. Una tempesta dei sensi, veloce come il vento, avvolgente fino allo stordimento. Una comunità in cammino, impegnata nel coltivare bellezza, consapevole delle asperità del sentiero ma guidata con garbo e dolcezza dal suo pastore. Quello che timidamente la presenta a tutti, quello che veste di nero con un colletto bianco, come per “segnare” il ruolo e il luogo. Un ragazzo diventato uomo e sacerdote, come molti di loro, anche laicamente.
Quelli che erano bambini – tanti anni fa -sono diventati adulti, erano figli e sono diventati padri, erano padri e sono diventati guide. Dentro l’ecclesia, dentro l’oratorio, dentro il recinto sacro. Seme, germoglio, tronco e fioritura. Un ciclo vitale che diventa comunità. La musica che unisce e diventa preghiera. Una preghiera viva, attiva, penetrante.
Ma dentro questo evento c’è tanto altro.
Non solo la voce della fede, non solo una celebrazione, c’è un modello di comunità, di vita. Un preciso modo di “abitare” il creato e la città. Un metateatro che rimbalza storie, leggende e credenze. Questo teatro della vita è stato narrato con dovizia di particolari, con seducente passione, utilizzando la precisione della musica, la nitidezza del suono, la profondità degli sguardi. Un continuo rimbalzo tra le donne e gli uomini del coro, l’assemblea e la fabbrica di Barbara. Armonie totalizzanti.
Dentro questo palinsesto di emozioni, circondati da santi e madonne, da luci e ombre, da suoni e silenzi, irrompono i bambini, la nuova semenza. Gli strumenti della rinascenza. Perché la bella notizia è questa, non tanto il tempo passato ma la certezza della continuità. La consapevolezza dell’utilità. In un tempo fatto di apparenze, di corse senza fine, di agguati e guerre, di personalismi e invidie. In un tempo di disorientamento sociale e culturale, serve un luogo, un castello aperto e attraversabile, dentro il quale coltivare un albero.
Non è fuggire dal mondo, non è scansarsi dalla traiettoria. Non è rifugiarsi, oppure voltarsi altrove. Al contrario è “scegliere”. Selezionare una nuova direzione, quella della lealtà, dell’essere comunità in cammino, quella di diventare incubatore di umanità.
Alla fine, quando la fatica consiglia la conclusione, rimangono impresse alcune immagini:
gli abbracci, le lacrime, gli sguardi felici. Il parroco, i templari, la nuova semenza, il coro, la gente, le luci e la musica. Poi, oltre la balaustra, una donna asciuga le sue lacrime dolci mentre guarda l’uomo che ha danzato con le mani, disegnando il cielo. Lacrime silenziose e segrete, rubate per un istante dal viaggiatore narrante.
L’ultima parola è affidata al coro:
“Signore, grazie per questa storia d’amore”. Questa “Chiesa” propone una via a tutti noi, credenti e non credenti. Una via che potrebbe e dovrebbe cambiare la forma della città, le modalità di socializzazione, il senso della solidarietà. Il seme è stato piantato, ora bisogna curarlo e proteggerlo e sappiamo che questi luoghi sacri hanno una nuova missione: accogliere le comunità in cammino e promuovere la semplicità e l’essenzialità dei sentimenti.