Siamo disorientati, forse bombardati da un’ipercomunicazione mediatica.
Siamo tutto e niente, siamo un presente intersecato da mille presenti.
Una tempesta perfetta di linguaggi, mode e tradizioni. Dalla moda alla cucina, dall’architettura alla religione, persino il clima ci propone varianti tropicali nelle aree del nord o bufere nel sud del mondo. Quella globalizzazione che sembra la soluzione di tutti mali, stemperata dalla “glocal” appare ormai superata, travolta dalla necessità di essere altro, più che esplorare l’altro. Ma soprattutto siamo quello che i media ci suggeriscono di essere. Tutto questo può fare paura, può farci pensare che la nostra identità rischia di perdersi, di trasformarsi, dimenticando.
Forse è vero, potrebbe succedere. Una metamorfosi culturale. Un cambiamento di usi e costumi, di atteggiamenti. Nelle arti, nella società, nell’economia, nelle religioni. Potrebbe succedere. Tutto questo ci spaventa, ci disorienta, ci costringe a realizzare palizzate, recinti, fossati. Tra noi o tra l’immagine che abbiamo di noi e degli altri. Perché vengono da lontano, perché credono in un altro dio, perché vestono diversamente, perché hanno un colore diverso della pelle.
Per questo inventiamo slogan, assiomi, aggrappandoci ai vecchi nazionalismi o a esasperanti globalismi. Entrambi il segno di un imbarazzo generazionale di gestire l’incontro con il “diverso”. Qualche volta ci aggrappiamo persino alla storia, almeno a una parte di essa, quella che è più funzionale alle nostre esigenze ideologiche. Quasi un tentativo di congelare la metamorfosi “evolutiva”dell’umanità.
C’è poi chi tenta di recintare le idee, i principi, geolocalizzandoli sotto forma di monopolio.
Oppure c’è chi impedisce l’introduzione di nuovi paradigmi, di nuovi scenari, monumentalizzando frammenti fragili e ipotetici che la storia ci ha restituito occasionalmente. Mentre la scienza rimette tutto in discussione, c’è chi vorrebbe imbalsamare la storia e la ricerca, per evitare un ipotetico “ribaltone”. Qualcuno sostiene che siamo circondati da ipotesi fluttuanti più o meno argomentate. Vince sempre quella meglio argomentata, almeno fino a quando non sarà smentita da un postulato più credibile. Roba da filosofi.
Ma se guardiamo indietro, molto indietro, scopriamo che l’umanità è un continuo pulsare tra isolamento e apertura, tra difesa delle tradizioni e contaminazione. Un continuo oscillare tra essere e divenire. Una condizione metabolica che incide sulla dimensione biologica e culturale dell’umanità. Siamo il frutto dell’incontro tra diversità che generano “l’altro”. Recentemente abbiamo scoperto da genetisti che la nostra pelle bianca dipende dall’incontro della nostra specie, che in Europa era di pelle nera, con i popoli provenienti dall’est del mediterraneo. Viene da sorridere.
Ma basta pensare ad Alessandro Magno, all’Impero Romano, a quello Ottomano, ecc. o se volete alle conseguenze delle colonizzazioni del Mediterraneo che hanno generato la nostra cultura cosi ibrida e mutevole. Pensiamo a Traiano e Adriano, imperatori della grande Roma di origine ispanica, quindi “stranieri”. Loro e tanti altri hanno creato quella globalizzazione che oggi chiamiamo “tradizioni”.
La questione forse è da ricercare nei tempi di consolidamento delle tradizioni, nel tempo di metamorfosi che interessava secoli mentre oggi si parla di minuti. Il tempo è il fattore determinante di questo disorientamento. La velocità che si impiega per assorbire la diversità. C’è un nuovo popolo di “partigiani” che fanno “resistenza” alla modernità, spesso per paura della diversità sconosciuta. La nostra reazione istintiva è sempre quella di conservazione e opposizione alle innovazioni, abbiamo paura di dover riconfigurare la nostra vita. Siamo oscillanti tra la sedentarietà culturale e il nomadismo intellettuale.
Perdiamo il nostro tempo a difendere recinti, innalzando palizzate, invece di realizzare porte agli stessi. Dobbiamo realizzare ponti e porte, passaggi e legami. Per attraversare i paesaggi culturali, per conoscere nuovi mondi, per poter scegliere, dove vivere e come vivere. Difendere la propria identità o tentare di scoprirla è un valore da proteggere, da incentivare, ma sempre tenendo le porte aperte, i ponti abbassati, le strade illuminiate.
Che la politica si faccia promotrice di “liberare” gli attraversamenti tra i mondi, di eliminare i rovi lungo i sentieri, di sostenere i viaggiatori del tempo, gli artisti e i filosofi, i poeti e i sacerdoti. Abbiamo bisogno di “pace”, di incontrare, di contaminarci. Non certo di agguati e sequestri, di diffamazioni e invenzioni. Il territorio della ricerca e dello studio è quello dove dobbiamo seminare il grano.