La Sicilia fotografata da Giuseppe Leone, morto ieri a 87 anni, probabilmente non c’è più.
Certamente non ci sono Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo ritratti in un’immagine rimasta nella memoria di tutti, proprio da Leone, che li sorprese a metà degli anni Ottanta nella casa della Noce, a Racalmuto, nel «paese della ragione», dove l’autore di «Il giorno della civetta» amava soggiornare d’estate.
Settanta pubblicazioni, trecentomila negativi raccontano una vita dedicata alla fotografia da un intellettuale a tutto tondo che ha fermato il tempo con gli scatti delle sue macchine analogiche (non ha mai usato il digitale), con il suo bianco e nero assolutamente prevalente rispetto al colore.
Siciliano d’Oriente, aveva occhi anche per l’altra sponda dell’Isola. Incuriosito e partecipe degli eventi che si svolgevano fuori dalla sua Ragusa, Leone «scrisse» per immagini l’epopea di Danilo Dolci, la lotta dei contadini per la terra, in un mondo «offeso», come avrebbe detto Elio Vittorini, che tentava di riscattarsi. E forse fu Danilo Dolci la chiave del suo ritorno in Sicilia da Milano, dove si era trasferito per un brevissimo periodo.
«Era un uomo che dava del tu a tutti, che si muoveva con disinvoltura nei territori della musica, dell’architettura, della letteratura. Ha fotografato fino a qualche giorno fa», ricorda il suo allievo Giuseppe Prode, che nel 2015 curò «Storia di un’amicizia», un volume di testi e immagini che contiene anche un lindo dattiloscritto di Sciascia sugli affreschi di Duilio Cambellotti alla prefettura di Ragusa.
È in parte anche merito suo la scoperta di Bufalino: «Leone restaurò delle lastre di un nobile del Ragusano e chiese allo scrittore di Comiso, ancora sconosciuto, la stesura di un testo che finì nelle mani di Enzo Sellerio, il quale rimase sorpreso dalla soavità dello stile. Non è un caso che poco dopo il sessantaduenne Bufalino uscì dall’anonimato e pubblicò `Diceria dell’untore´».
Il suo palazzo a cento metri dalla cattedrale di Ragusa – dove il padre di Leone suonava l’organo – raccoglie lo sterminato lavoro del fotografo, custodito in un edificio dall’architettura che, ricorda Prode, rassomiglia tanto a un’architettura fiamminga: una stanza sopra l’altra. Un archivio che non può correre il rischio d’essere dimenticato.