Stefano Mancuso, che dirige il Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale (LINV) dell’Università degli studi di Firenze – dove è professore ordinario – con il suo recente lavoro “Fitopolis – La città vivente”, pubblicato da Editore Laterza, ci mette in guardia sul futuro delle città. Sul nostro rapporto conflittuale con le piante, in particolare quelle che vivono in città o che dovrebbero occupare più spazio e attenzioni nei nostri ambienti urbani.
Quello che spesso noi definiamo utopia, cioè la necessità di curare e potenziare la natura in città (e non solo), oggi si configura come necessità impellente. I cambiamenti climatici, dall’’800 ad oggi c’è stato un aumento di quasi due gradi, impongono un cambio di paradigma, una nuova strategia politica che punti alla qualità ambientale, sociale e culturale delle nostre città.
“Da troppo tempo ci siamo posti al di fuori della natura, dimenticandoci che rispondiamo agli stessi fattori che controllano l’espansione delle altre specie. Abbiamo concepito il luogo dove viviamo come qualcosa di separato dal resto della natura, contro la natura. Ecco perché da come immagineremo le nostre città nei prossimi anni dipenderà una parte consistente delle nostre possibilità di sopravvivenza”. Questa, in sintesi la provocazione del direttore scientifico della Fondazione per il Futuro delle Città, Stefano Mancuso.
Viviamo in un pianeta in cui l’86,7% è occupato da piante e lo 0,3% da animali, compreso l’uomo, mentre i microrganismi sono la parte restante. Considerando tra l’altro, che la vita animale (sempre compreso l’uomo) dipende dalle piante. Sono l’anello che lega il sole alla terra. La fotosintesi è il vero motore della vita. L’ossigeno che respiriamo proviene proprio dalle piante. Per 20.000 generazioni siamo stati cacciatori e raccoglitori, per 500 generazioni agricoltori e solo da 4 generazioni viviamo dentro stanze illuminate dall’energia elettrica. Può bastare per farsi un’idea. Noi siamo natura e le piante sono la parte più consistente di questo ecosistema planetario.
A questo punto è necessario puntare il dito sulla necessità di ripensare le nostre città con più natura. Non si tratta solo di diminuire le emissioni di anidride carbonica con le troppe conclamate politiche ambientali – macchine elettriche, mobilità pubblica, riciclo dei rifiuti e sostenibilità produttiva – ma di ripopolare di essenze vegetali parti significative della città. In pratica non è solo una questione di permeabilità dei suoli – che deve essere perseguita – ma proprio di piantare, potenziare, ampliare la presenza di alberi, arbusti, ecc. in ogni dove.
Il consumo del suolo, in Italia, sta raggiungendo livelli preoccupanti, sparisce la porzione di terra destinata alle piante. Gli interventi di “riqualificazione urbana” come li ha definiti Vera Greco recentemente, mirano a pavimentare piazze, slarghi, vuoti urbani senza un preciso programma di ripiantumazione, privilegiando un design che punta alla impermeabilizzazione diffusa della città. In una recente conferenza a Catania, organizzata dall’Ordine degli Architetti PPC sono state presentate piazze dell’area etnea che avevano come toponimo il nome degli alberi (piazza dei Pini per esempio) che occupavano questi vuoti, oggi – tagliati o sradicati – rimangono solo un ricordo nell’identificazione collettiva. Che poi è la stessa fine che fanno le fontane, i giochi d’acqua e gli abbeveratoi, scomparsi sotto i colpi della modernità, trasformati, fino a diventare l’ombra di sé stessi. Come se non avessero anche una funzione nel microclima urbano, per mitigare le anomalie termiche. Sembriamo indifferenti a questi temi e quasi superficiali.
Oggi è necessario riflettere. Non mettere sempre la testa sotto la sabbia e considerare la città uno spazio da ridisegnare a partire dalle piante, pubbliche e private e non si tratta di piantare un alberello -simbolico – per la giornata internazionale del pianeta, di questi eventi siamo tutti un po’ stanchi. Abbiamo bisogno di un piano più strutturato e diffuso. Pare interessante l’idea di piantare – per esempio – un albero per ogni bambino nato o per ogni caro che ci lascia, lo prevede persino una legge italiana che non viene applicata in maniera sistematica, quasi si sconosce.
Sembra quasi che si voglia lasciare i pochi spazi potenzialmente utili per piantumare in uno stato di sospensione, in attesa che un imprenditore si proponga per l’ennesimo intervento di centro commerciale e/o alberghiero, ormai le residenze tirano meno. Invece bisogna disegnare i nuovi parchi, in particolare dove i suoli sono già pubblici. Sostenere e incoraggiare la partecipazione dei privati in forme semplificate, evitando solo le passerelle ormai fuori moda.
Fitopolis, la città vivente, edito da Laterza è una lettura necessaria per riordinare le idee, per trovare il senso delle proporzioni, per comprendere che esistono modelli alternativi senza necessariamente scivolare nella banale utopia tanto fastidiosa ai pragmatisti funzionali (che poi sono gli stessi che stanno divorando il pianeta terra, per adesso). Quindi si potrebbe contrapporre alla prassi politica – vorace di risultati – una nuova progettualità a partire dalla natura che rivaluti il contadino come portatore di modi e metodi di adattamento più coerenti con la nostra storia umana.