Le nostre donne, quelle di un tempo, si riunivano intorno alla “conca”.
Un braciere circolare con modanature e maniglie, colmo di carbonella e aromatizzato con le bucce di arancia che bruciavano lentamente inondando le stanze di profumi intensi. La conca metallica veniva collocata dentro una cornice di legno che permetteva di poggiare i piedi per riscaldarsi. Intorno a questo fuoco, con le coperte sulle gambe, le donne si riunivano per parlare, anche per solidarizzare e trasferirsi esperienze. Anziane e giovani, lavoratrici domestiche e contadine, vergini e maritate, sante e peccatrici.
Incontrarsi per chiacchierare di ogni cosa, di tutti, ma soprattutto dei segreti della comunità.
All’inizio solo un fruscio, un sussurro di voci e maldicenze, poi come un fiume in piena, anche oltre. Un susseguirsi di stupori e di rilanci, di sorprese e di affondi di lama, quasi delle esecuzioni e tragiche condanne. Guai ad alzarsi dal cerchio, per evitare di diventare noi stessi i protagonisti di quel chiacchiericcio senza fine.
Verità, illazioni, pregiudizi, vendette? Non importa, quella comunità di donne celebra un rito antico. E gli uomini non sono da meno: ascoltano, sorridono, sembrano complici, spesso sopresi ma in verità cercano di controllare gli eventi, di conoscere i dettagli più piccanti, di verificare se c’è il loro coinvolgimento in una di quelle storie per poi discuterne in altre “conche”. Come per i misteri Eleusini, le donne parlano con segni, ammiccamenti, mezze parole, detto e non detto, un linguaggio segreto fatto spesso di sguardi e smorfie. L’uomo deve capire e non capire. Un gioco a cui partecipano tutte, le donne del paese e quelle venute da lontano. Tutte complici, disposte a dire e a sentire.
Ovunque, in ogni paese e città, dentro ogni casa, anche in quelle più aristocratiche.
Si parla, si discute, prevalentemente della “vicina”, del figlio della vicina, del marito della vicina e spesso di “bocca di rosa”. O comunque di tutte le bocca di rosa che quel luogo restituisce alla storia. La moglie del medico, del macellaio, di quello delle pompe funebri. Quella scappata di casa, quelli che “sconzano” le famiglie, le donne fatali e qui gli uomini non ci fanno una bella figura. Subalterni, vittime, predestinati, plasmati e manipolati. Le donne parlano di donne, del loro potere, della loro forza, anche quando sembrano basite. Poi gli scappa quella frase: ma compare “Turiddu” è proprio un bell’uomo, che un pensierino non è peccato. Insomma, da una parte loro – vergini e sante – e dall’altra parte gli altri – peccatori e babbi.
C’è bellezza in tutto questo, c’è una forma di socialità antica.
In qualche modo l’origine della letteratura, della poesia, della narrazione fantastica. Storie, eventi, riferimenti utili per lo scrittore, il poeta, l’artista. Un patrimonio di novelle pronte per essere ricurvate, sciacquate e ricomposte per creare nuove storie. Una narrazione che ingloba le smorfie e gli sguardi che accompagnano il racconto, la mimica e quel continuo stupirsi per nascondere il desiderio più intimo.
Tutti all’inizio sono estranei, distaccati, quasi assenti ma piano piano introducano dettagli, coincidenze, piccoli aneddoti che trasformano un ruscello in tempesta. E alla fine, le frasi sono sempre le stesse: “così dicono, io non ho mai visto nulla” come per mettersi al sicuro.
Vicino, attento, c’è sempre un uomo.
Custode dei segreti, rappresentante di quel popolo che rimane fuori dal cerchio. Un po’ babbano e un po’ mago, insinuato tra le fila nemiche a garantire che ogni cosa è al suo posto, fortunato per esserci e per questo deve essere cauto. Lui non conosce nulla. Meglio tacere, su tutti e sui presenti, come un gioco delle parti.
Ma quella conca è sempre viva, l’odore della buccia di arancia penetra fin dentro l’anima, ravviva gli sguardi, ci porta indietro nel tempo. Quando si metteva sul fuoco una fetta di pane, poi velata di burro da dare ai bambini di casa; parte della nostra tradizione, nelle liturgie femminili. Oggi questa ritualità – nel tempo digitale – si traduce nell’essere dentro una chat, una camera virtuale dove si scrive e si registra, dove si riproduce per gli altri per trasformare in “eco” ogni parola.
Ma qualcuno desidera ancora la conca, quella di una volta. E allora organizza un tè tra amiche, un incontro innocente, fatto di prelibatezze e bollicine, nell’intimità di un salotto paffuto, intorno a un tavolo di legno rotondo. Ci sono tutte le donne che servono, quella mature e le giovani, le signorine e le madri, le straniere e le radicate. Ogni sfumatura è buona per avviare la danza delle parole. Dall’alto, affacciati in un balcone che domina la città – tra una risata e l’altra – passa la santa, seguita dai fedeli, mentre chiacchierano anche loro delle stesse cose: le allegre vicine.
Quasi un esorcismo, un modo per demonizzare il pericolo che “bocca di rosa” possa attraversare la loro vita. Emoziona l’idea che in questo teatro “lui” è solo uno spettatore: come sempre, da sempre. Ma come ogni spettatore ha il compito di essere testimone, non tanto delle storie – vere o false – ma di quella liturgia femminile che ravviva le comunità.
Una bella serata, e non chiedete mai cosa si sono dette quelle donne vivaci, conoscitrici della città, resterà un segreto. La scrittura fissa le idee, quasi le fa morire, congelandole per sempre, senza farle evolvere, per poi chiamarla (verità).
Il racconto orale, parlato, al contrario, ne permette l’evoluzione e fa svolazzare oltre l’orizzonte ogni idea, arricchendosi – in ogni passaggio – di nuovi particolari che colorano la “storiella”. Ecco, come nasce la poesia, l’opera epica, il romanzo, il racconto cavalleresco.
Ma guai a diventare i protagonisti di questi racconti segreti, guai. Allora meglio essere presenti. Perché ci sono donne che ricamano con le parole ma altre che usano l’invenzione solo per uccidere, queste non stanno attorno a un tavolo con la conca accesa e il profumo di arancia, sono solo Erinne, pericolose e tragiche, da queste nascono solo storie tristi e di morte. Meglio la “conca” di un tempo o di adesso.