Paternò, l’occasione perduta. La vendita inutile dell‘Albergo Sicilia.

Paternò, occasione perduta. L’Albergo Sicilia venduto e basta.

Venduto e basta, l’albergo Sicilia a Paternò è stato dismesso, diciamo abbandonato.

La città Metropolitana di Catania – da sempre avara nei confronti di questa città – ha finalmente sdoganato un patrimonio immobiliare che era diventato solo una rogna. Utilizzato dai senza tetto fino a poco tempo fa e come ricovero per gli extracomunitari stagionali dell’agricoltura era stato chiuso con tamponature di muratura che sistematicamente erano dismesse dai disperati in cerca di un riparo. Non era questa la sua vocazione e andava certamente recuperato.

Costruito negli anni ’60 è stato per molti anni l’unico albergo della città.

Testimone di eventi e di manifestazioni internazionali, ospitando tra l’altro molti personaggi pubblici, ospiti in città. L’architetto Alfio Fallica – lo stesso dell’ospedale SS. Salvatore di Paternò – ha firmato il progetto e forse sarebbe giusto riscoprire il valore architettonico delle sue opere in città, segnate dalla vicinanza culturale al grande Marcello Piacentini, alla scuola romana e quindi a più famoso architetto Francesco Fichera.

L’ex albergo è collocato strategicamente all’ingresso della città, adiacente al parco storico della villa comunale, aderente a terreni potenzialmente trasformabili che accolgono antichi tracciati idrici. Un’opportunità per ridisegnare questa parte di territorio, per rigenerare una porzione di città e rilanciala verso funzioni più congruenti. Oggi i modelli ricettivi sono cambiati ma rimane sempre la necessità di avere uno spazio specializzato per l’accoglienza. In questo senso c’è già una letteratura consolidata di ipotesi e progetti di potenziale trasformazione che andavano approfonditi e sviluppati, ma sembra un esercizio inutile di questi tempi.

Meglio vendere e non parlare più.

La città metropolitana ha investito importanti risorse finanziarie per elaborare il piano strategico metropolitano per definire le linee di sviluppo nei prossimi decenni prevedendo investimenti infrastrutturali e strutturali in ogni parte del suo ampio territorio. Musei, scuole, spazi per lo sport, strade, impianti per la produzione di energia, di tutto per ogni luogo ma l’unico intervento previsto per Paternò, l’unica idea per questa città è stata quella di “vendere” un edificio che potenzialmente – per forma e collocazione – poteva diventare altro, sempre a cura della provincia. Ma sappiamo tutti che dopo la cancellazione delle province, il peso politico delle città è scemato a tutto vantaggio della città di Catania, diventata vorace e famelica, fino a raggiungere una forma di obesità patologica con il rischio di implodere su sé stessa.

L’albergo Sicilia poteva diventare la scuola di agraria e l’alberghiero di Paternò, anche potenziando e ampliando la sua struttura. Poteva diventare un centro di formazione per accogliere le scuole – ancora afferenti all’ex provincia – l’hub di un più ampio progetto di rigenerazione collegato direttamente alla stazione della Metropolitana (quella attuale). Ma l’apatia, l’indifferenza, la mancanza di visione, l’assenza di creatività amministrativa sono state le cause di questo abbandono. La cosa più importante per tutti non era rigenerare ma dismettere. Vendere e dismettere come unica strategia urbana.

C’è poco da vantarsi in questa storia, c’è poco da essere allegri.

Abbiamo preferito fuggire, abbandonare l’impegno politico pur di non avere la responsabilità della sicurezza e del governo dell’edificio in un Ping-pong surreale tra amministrazioni locale e metropolitana. Vendere metteva tutti d’accordo e non ci costringeva a progettare, pianificare, diciamo a pensare. Tutto facile.

L’unica speranza è che il nuovo acquirente – imprenditore privato – abbia la voglia e il coraggio di proporre scenari più innovativi e che si sostituisca con la sua vivacità, al pachidermico immobilismo della politica locale. Non basta tagliare nastri, bisogna governare i processi, stimolare le azioni. L’entusiasmo per la vendita è surreale. Come per dire che siamo contenti perché abbiamo fallito come comunità. Ci siamo solo liberati di una rogna che non sapevamo risolvere con gli strumenti ordinari.

PNNR, SIRU, ecc. non bastano a ravvivare la nostra capacità progettuale.

Abbiamo bisogno di stare tranquilli, senza problemi, meglio adattare quello che abbiamo già nei cassetti che progettare una città proiettata verso il futuro. Magari mettendo in discussioni i paradigmi esistenti. Meglio la sopravvivenza che la fatica fisica e intellettuale per disegnare il futuro. I coccodrilli non hanno bisogno di andare sulla Luna, esistono da milioni di anni, non hanno sentito l’esigenza di evolversi, gli basta esistere. Ma l’uomo, lo sappiamo tutti, guarda da sempre verso il cielo e si proietta sempre verso la realizzazione di un habitat migliore. Siamo uomini o coccodrilli?

Una cosa è certa, la politica locale ha perso l’ennesima occasione di configurare uno scenario per il futuro.

Ha solo subito la pigrizia della tecnocrazia, non ci resta che affidarci alla manzoniana “provvidenza”. Ma sembra che persino la comunità sia spenta e rassegnata come fossero prede predestinate dei coccodrilli della palude.

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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