Catania, al Metropolitan il 20 ottobre il Festival delle Parrocchie: intervista a Padre Nino La Manna

Catania, al Metropolitan il 20 ottobre il Festival delle Parrocchie: intervista a Padre Nino La Manna

l ruolo della cultura, della sensibilizzazione su temi di attualità e di promozione dei valori umani nella società odierna appare determinante per la costruzione di un futuro migliore.

I giovani hanno bisogno di guide e riferimenti importanti, di un ritorno alla contemplazione, alla riflessione e alla “coltivazione” del proprio essere in relazione agli altri. La seconda edizione del Festival delle Parrocchie, che andrà in scena venerdì 20 ottobre al Teatro Metropolitan alle ore 20:30, è pensata proprio in quest’ottica. Saranno i giovani i grandi protagonisti della manifestazione, sia sul palcoscenico che in platea, ricordando il Beato Carlo Acutis, che oggi può senz’altro essere un punto di riferimento positivo per i ragazzi.
Padre Nino La Manna, Vicario episcopale per la cultura della Diocesi di Catania ha risposto ad alcune domande sul tema della cultura e degli esempi da dare ai giovani.

A cosa serve la cultura oggi?

“Cultura è tutto ciò che noi siamo e viviamo, la nostra struttura sociale. Con il termine cultura indichiamo il nostro modo di pensare, i nostri valori. Adesso ci ritroviamo ad avere un retaggio culturale che proviene dai nostri padri del passato e siamo chiamati a rielaborarlo e viverlo nel nostro quotidiano. L’ambiente culturale nel quale viviamo è quello della multiculturalità. C’è un grande migrare per svariate ragioni e intere parti di popoli con i loro retaggi culturali si spostano. C’è una sorta di ‘travaso’, interazioni con realtà completamente diverse dalle nostre. A volte potremmo giudicarle arretrate o inadeguate perché siamo legati al nostro modo di pensare. Cultura oggi dovrebbe significare sapersi arricchire vicendevolmente, partendo da quelle realtà valoriali che ciascun popolo e gruppo etnico o religioso ha. Penso che oggi cultura significhi anche essere disponibili all’ascolto e all’accoglienza di ciò che di bello l’altro mi propone”.

Quali aspetti della cultura occorrerebbe valorizzare nelle parrocchie?

“Prima di tutto la Chiesa ha come suo più alto patrimonio quello dell’incarnazione. Il grande paradosso di un Dio che si fa carne ed entra in una storia, in una cultura, in un movimento. Il bel contributo della cultura è quello di saper entrare nella storia di ciascuno, saperne scorgere le bellezze ma anche le criticità, le contraddizioni, le difficoltà. Farsi compagno dell’altro, accompagnarsi vicendevolmente, penso sia la realtà più importante. Quindi una cultura di condivisione, far ‘pane’ con l’altro. Oggi penso che sia fondamentale questo aspetto, perché altrimenti si arriva allo scontro, come purtroppo spesso succede al giorno d’oggi”.

Come possiamo rendere più accessibile la cultura nei luoghi più disagiati della città?

“Il nostro vescovo Luigi Renna dall’inizio del suo mandato ha puntato sulla risoluzione del problema della dispersione scolastica. Nel corso dei festeggiamenti agatini ha invitato i devoti a mandare i propri figli a scuola. La prima cosa è arginare la fuga degli elementi culturali. Ovviamente ci sarebbe anche la necessità di una profonda riforma del sistema della formazione scolastica, del modo in cui poter coinvolgere attivamente i ragazzi e quindi farli entrare all’interno di un universo che possa migliorare, lì dov’è necessario, la qualità della loro vita e anche dell’aspetto culturale. Sappiamo che diverse realtà della città vivono in questo tipo di difficoltà. Credo però che la difficoltà maggiore sia la poca disponibilità all’ascolto. A volte si guardano i quartieri e si tiene in considerazione soltanto l’aspetto del degrado ma siamo entrati in questi rioni? La prima cosa da fare è questa. Fare cultura significa entrare in contatto reale con l’altro, ascoltarlo prima di proporre qualcosa.
Da questa dimensione d’ascolto penso che nell’altro potrebbe nascere la fiducia nell’accogliere la proposta. Ma devo fare interessare l’altra persona iniziando un dialogo costruttivo. Una presenza delle parrocchie, che è già encomiabile, più viva, attiva. La penetrazione maggiore nel territorio consente la creazione del clima di fiducia e non di, purtroppo, abituale diffidenza nei confronti di chiunque. Si deve partire dai giovani con una maggiore presenza di quella che chiamiamo pastorale giovanile, per trasmettere valori. A volte noi proponiamo degli eventi, però sappiamo che la penetrazione di una realtà valoriale non può avvenire solamente con l’evento. Serve continuo contatto e interscambio di vita che consenta poi il reale far cultura. Io coltivo una relazione, questo prima di tutto è cultura”.

Parliamo di un periodo che viene definito di decadentismo culturale con un’attenzione particolare ai social. Ad oggi esiste ancora la figura dell’intellettuale? Cosa e chi identifica l’essere intellettuale?

“Per me il vero intellettuale è un contadino della mente. Il contadino, intanto, per esperienza conosce i ritmi del tempo, l’evolversi delle stagioni, perché esce fuori di casa e va concretamente sul campo. Sa come deve lavorare il terreno e come prepararlo. Il vero intellettuale è colui che entra nella propria storia con il bagaglio dei propri studi e delle proprie conoscenze. Deve potere entrare in contatto, in comunicazione, da una storia dalla quale non si può stare distaccati, lontano o con lo sguardo arcigno. Devo entrare nel campo e coltivarlo. Un po’ quello che faceva Socrate con i giovani. Quindi il vero intellettuale secondo me è quello che sa trarre ciò che già c’è. La famosa arte maieutica del tirar fuori, invitando l’altro a ragionare. Altrimenti ci riduciamo, mi si passi il termine, a essere degli sputasentenze che non servono a nessuno”.

Oggi quali sono i temi che gli operatori della cultura dovrebbero veicolare?

“Ci sarebbe, prima di tutto, la necessità di un ritorno allo studio dei classici e nello specifico di cosa hanno creato nella nostra cultura. Un grande modello è stato il Medioevo che di solito viene tacciato come un’era oscurantista e che invece è stato un periodo di grandi scambi tramite le migrazioni. Lo scambio culturale si dovrebbe iniziare a fare con i ragazzini, con i bambini, anche quando si fa il grest o attività che sembrano lontanissime dalla cultura. Nel 2009, anno di San Paolo, ricordo che le squadre del grest in cui operavo avevano tutte i nomi delle città visitate dal Santo. Quei ragazzi, che oggi sono grandi, si ricordano benissimo quei particolari. Sembrano delle bazzecole ma è attraverso queste piccole cose che noi possiamo far passare la cultura, non dall’alto tronfio di una cattedra, bensì grazie al quotidiano. Penso che questa forse sia la realtà migliore. Il dato culturale più importante è andare incontro all’altro e non aspettare che l’altro venga”.

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