La città è ricca di luoghi, di occasioni, di spazi qualche volta inespressi.
Porzioni di tessuto, come i cortili, i vicoli e le pizzette che si nascondono all’occhio frettoloso del visitatore. Sono luoghi lontano dai clamori che hanno perso la loro identità, declassati a relitti urbani. In qualche modo sconnessi dal resto della città, come fossero periferie storiche, ma nello stesso tempo portatrici di umanità, ancora teatri di quotidianità. Si trovano adiacenti alle grandi piazze, alle vie più frequentate, dietro i palazzi più iconici, ma rimangono ai margini, come per fare solo da cornice.
Hanno bisogno delle stesse attenzioni dei grandi viali, reclamano impegno e risorse non solo sul piano degli investimenti infrastrutturali ma soprattutto sul piano delle attività culturali e sociali. Costituiscono una costellazione di micro luoghi che, resi sistemici, possono offrire nuove opportunità di rivitalizzazione dei tessuti commerciali, residenziali e culturali. Luoghi piccoli, essenziali, reticolari, dove si può compiere la strategia della “città dei quindici minuti”.
Sono micro quartieri, luoghi di comunità, dove la gente si ascolta dai balconi, dove i profumi di gelsomino disegnano un sentiero, dove gli odori di melanzane fritte definiscono il tempo del pranzo e la musica di uno è la musica di tutti. Riparati dal sole, costituiscono un percorso ombreggiato anche a mezzogiorno. Porte, portici e, cortili, contrazioni ed espansioni. La luce che illumina le case e il sole che accarezza i panni stesi. Serve la disponibilità del nostro sguardo interiore per riuscire a cogliere questa bellezza, lontana dai nuovi stereotipi commerciali, serve un diverso modo di godere della città, di una rinnovata attenzione alla semplicità dei gesti che si fanno liturgia in queste parti di città.
Per ritrovare tutto ciò non serve certamente conservare o congelare, o come spesso accade abbandonare, semmai migliorare questi insiemi urbani con l’individuazione e l’infrastrutturazione. Quindi definire ambiti, relazioni e costellazioni, rinnovando la qualità dello spazio pubblico – pavimenti, alberature, panchine, fontanelle, micro parcheggi – le reti di servizi – fibra, illuminazione, fognature- e le politiche fiscali per incentivare il ritorno abitativo e commerciale di questi polmoni di memoria e umanità.
Non si tratta di realizzare un presepe, tanto meno di sostituire etnie sociali, ma di integrare, implementare, facendo attenzione a calmierare la rendita fondiaria ed edilizia. Non si tratta di iconizzare parti di città ma di rimetterle nel ciclo virtuoso del resto della città, utilizzando le politiche dell’innesto. Trapiantando funzioni compatibili – culturali, commerciali, sociali, ludiche, sanitarie, scolastiche, sportive, ecc. – riconnettendo le parti di città, potenziando l’accessibilità complessiva.
Un vero e proprio piano di rinnovamento che individua gli ambiti e le strategie d’azione nel breve e nel lungo termine, anche accompagnando – sul piano tecnico e finanziario – la gente che vi abita o che vorrà abitarci. Quasi immaginando una specie di team di esperti a supporto come fossero vigili di quartiere (sociologi, architetti, artisti, commercialisti, ingegneri, ecc.). Individuare, analizzare, pianificare e attuare. Oggi più che mai, in questo tempo di grandi risorse a pioggia che finanziano ogni cosa, definire un ambito di intervento, anche a carattere esemplificativo, potrebbe riaprire una via che sembrava persa, quella della rigenerazione vera delle perifericità.
Musica, giochi da strada, teatro, cinema, piccole attività commerciali, presidi sanitari, uffici di supporto comunali, piccoli luoghi per lo sport, possono essere la strategia per esercitare quella pratica dell’architettura, quell’esperienza della trasformazione urbana che sembra essersi persa a tutto vantaggio degli interventi fuori scala – qualche volta inutili. Oggi dobbiamo ripartire – anche – dalle piccole cose, come recuperare una piazzetta alla periferie della città storica, che ha bisogno di attenzioni e risorse, anche de localizzando piccole attività culturali e sagre enogastronomiche (cosi tanto di moda).
Ogni città possiede una parte di questo patrimonio inespresso, ogni città dovrebbe guardarsi dentro, scavare tra le sue parti più remote e trovare le ragioni primarie dell’essere città. Magari in quelle porzioni che un tempo erano il cuore pulsante della polis antica, oggi ai margini dei luoghi più iconici, inventati dalle politiche commerciali e turistiche dei grandi numeri. In questo modo si recupera il sentiero che ci permette di riscoprire le piccole chiese, gli archi e le balaustre rimaste in vita, quelle scalinate orma abbandonate e i luoghi delle antiche leggende urbane. Insomma, un patrimonio minore ancora ricco di vera umanità e urbanità. Luoghi dove le scuole di architettura e la politica dovrebbero concentrare le attenzioni della ricerca, dell’esperienza didattica e amministrativa. Luoghi che si devono abitare davvero per far respirare la città che rischia di implodere nelle sue stesse ambizioni, travolta da narcisismi urbani, asfissiata da mode transitorie.