“Migliaia di chiese sono oggi inaccessibili, saccheggiate, pericolanti. Altre sono trasformate in attrazioni turistiche a pagamento. Oggi non sappiamo cosa farcene, di tutto questo ben di Dio, e bene pubblico: mancano visione, prospettiva, ispirazione. Ma è anche lì che si potrebbe costruire un futuro diverso. Umano” … Possiamo decidere che anche questi luoghi speciali che arrivano dal passato devono chinare il capo di fronte all’omologazione del pensiero unico del nostro tempo. O invece possiamo decidere di farli vivere: per aiutarci a vivere in un altro modo.”
Lo scrive Tomaso Montanari, storico dell’arte, nel suo recente libro “Chiese chiuse” edito da Einaudi del 2021.
Le vocazioni al sacerdozio sono in forte calo, lo dicono i numeri degli iscritti ai seminari.
Le nostre città possiedono un immenso patrimonio di luoghi di culto – nel migliore dei casi – sottoutilizzato, ma spesso abbandonato e quindi degradato. Ma nello stesso tempo, questi luoghi del sacro, sono i testimoni di una storia secolare, testimoni di tradizioni religiose e culturali, custodi di opere artistiche meravigliose.
Montanari pone l’accento su alcune possibili criticità, attraverso esempi concreti, paventando persino scenari futuri; mettendo in evidenza la necessità di ripartire – nella scelta dei paradigmi dell’uso – dalla sacralità dei luoghi, dai diritti di proprietà, dalla dimensione museale (didattica) e devozionale (religiosa); evitando storpiature e mercificazioni. “Le chiese si aprono ai ladri quando si chiudono ai cittadini”. La ricerca delle possibili funzioni, di quelle chiese (parrocchiali, arcivescovili, delle confraternite, private, pubbliche e del Fondo per l’Edilizia di Culto) che si avviano inesorabilmente verso un probabile abbandono, non possono prescindere, secondo lo storico dell’arte, dall’uso per la preghiera e per la liturgia dello sguardo. Lo dice la stessa Conferenza Episcopale Italiana nel 2005, intendendo inseparabili le due funzioni.
Ma cosa fare? Come utilizzare questo patrimonio? Il diritto canonico sancisce in relazione alla possibile funzione “laica” la dicitura “ad uso profano non indecoroso” come lo stesso codice dei beni culturali che recita: l’uso delle ex chiese sia “non indecoroso” e in particolare l’art. 20 comma 1 impone che “i beni culturali non possono essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti a usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione”.
Ovviamente l’onere di salvaguardare il patrimonio di beni culturali di interesse religioso (art. 9 Codice BB.CC.) non è solo dalla Chiesa ma anche dello Stato italiano, come previsto dall’Intesa firmata nel gennaio del 2005 dal Cardinale Camillo Ruini (CEI) e da Giuliano Urbani (Stato italiano). E basterebbe utilizzare – da parte delle Soprintendenze – l’art. 32 e 34 del codice dei beni culturali per scongiurare la rovina, l’abbandono o peggio ancora l’uso non decoroso. Ma in questo momento storico, il contributo del Terzo settore (associazioni di volontariato culturale) può essere determinante, per riaprire e manutentare gli spazi in abbandono o non utilizzati. Quello dell’affidamento o dell’adozione potrebbe essere uno strumento più efficace per continuare ad aprire alla collettività, inteso come azione di sussidiarietà.
Quindi, in condizioni di fine della “dicatio ad cultum”, come presa d’atto o per decreto del Vescovo, si pone l’interrogativo di cosa fare per evitare l’abbandono e il successivo degrado, nel rispetto della testimonianza intrinseca dei luoghi come portatori di sacralità e di storia. E’ auspicabile, dove è possibile, integrare le funzioni (religiose e laiche), attraverso l’ibridazione, ponendo l’accento alle prestazione acustiche, illuminotecniche, logistiche, espositive, liturgiche, didattiche e artistiche. Le città hanno bisogno di nuovi luoghi per crescere come comunità, luoghi per la lettura, l’ascolto, la teatralizzazione. Spazi per sperimentare, per narrare, per studiare. Nuove modalità d’uso che rimettano al centro la vita parrocchiale, non solo catechismo cattolico ma arte, incontri, ricerca, formazione, divulgazione.
In ogni città c’è un patrimonio da riconfigurare, specie nei centri storici, ricchi di luoghi, di opportunità.
Ma non è possibile una vera rigenerazione se non è accompagnata da un piano complessivo che vada oltre i confini parrocchiali. Una rete di spazi condivisi, tra le parrocchie, oppure un ente di gestione che sappia “usare” il patrimonio in accordo, attraverso “intese”, con gli attori pubblici e privati, il volontariato e le scuole. Un progetto che specializzi alcuni luoghi per “riavviare” la comunità, per tornare ad essere polarità sociale, culturale e religiosa, senza perdere l’identità originaria che costituisce essa stessa testimonianza storica di civiltà. Un’idea per recuperare un legame antico e funzionale tra il territorio e le “chiese”. Il degrado urbano passa anche attraverso il degrado dei suoi simboli, spesso chiusi e in rovina. Trasformare le chiese in luoghi dell’incontro culturale, artistico e religioso è la strada da percorrere, il sentiero da attraversare. Ma con un piano complessivo, un progetto di musealizzazione che diventi un museo diffuso, un parco letterario e religioso, un nuovo modo di pensare la città a partire dai suoi simboli più iconici.
Tutto questo, coerentemente agli Atti del Convegno del 2018 dedicato dal Pontificio Consiglio della cultura, dall’Ufficio nazionale per i Beni culturali ecclesiastici e dell’edilizia di culto e della Facoltà di Storia e Beni culturali della Chiesa della Pontificia Università Gregoriana, dal titolo: Dio non abita più qui? Dismissione dei luoghi di culto e gestione integrata dei beni culturali ecclesiastici, a cura di F. Capanni, Artemide, Roma 2019.