Siamo circondati da tempeste, sferzati da venti come foglie, inondati da fiumi straripanti nel mese di maggio quando ormai l’estate è alle porte.
Invece, sembra il preludio all’inverno, quel tempo dal cielo plumbeo che anticipa la festa di Natale; ma non è così, ormai l’estate è vicina. L’agricoltura soffre terribilmente, la terra frana e gli alberi si piegano fino a spezzarsi. La natura segue il suo corso, modella il paesaggio e detta nuovi ritmi per l’uomo. Ma l’uomo si sente dio e ascolta poco, praticando male.
L’Italia è stretta da una morsa, da nord a sud, in ginocchio, per le implicazioni terrificanti dovute alle manifestazioni atmosferiche che uccidono, distruggono, spazzano via ogni cosa. Fango, frane, inondazioni, crolli, dovuti alle piagge, al vento, ai fulmini, forse sarebbe meglio dire dovute all’uomo.
Ormai ovunque si parla di cambiamenti climatici, di tempo impazzito, di natura maligna, come fosse una condanna divina, come fosse inevitabile. Ma tutti sappiamo che tanto dipende da noi, da quello che abbiamo già fatto in passato e adesso e da quello che non stiamo facendo. Ci voltiamo dall’altra parte e facciamo finta di non vedere e di non sapere, ma è sotto gli occhi di tutti il fallimento delle nostre azioni nei confronti di quella “natura” che continua a svolgere il suo compito da sempre. Siamo stati noi e siamo noi a non aver capito come agire.
Le città hanno perso la capacità di assorbire, di governare, di mitigare:
l’azione dell’acqua e del vento. Hanno cominciato a perdere questa capacità tanti anni fa e continuano a proporre dispositivi inadeguati allo scopo. Anche se da ogni parte si continua a declamare le regole d’oro per costruire nuove ecologie urbane e agricole.
Non dreniamo i fiumi e nemmeno li manutentiamo. Costruiamo argini sempre più alti rispetto alla quota di campagna, predisponendoli allo straripamento improvviso.
Una catastrofe annunciata. Non piantiamo alberi, non curiamo quelli esistenti, al contrario li estirpiamo e dismettiamo i terrazzamenti di pietra, abbandonando le campagne. Continuiamo a rendere impermeabile ogni possibile superfice con asfalto, cemento e pietra. Invece di aumentare le superfici disperdenti le riduciamo drasticamente. Invece di tutelare gli alvei e i compluvi li copriamo con ogni tipo di artificio: case, strade, industrie ecc.
Invece di investire nelle infrastrutture di governo delle acque, oggi più che mai diventata una risorsa preziosa, pavimentiamo e sigilliamo ogni centimetro delle nostre città.
L’ecologia semplice delle nostre città dipendeva da piccoli accorgimenti presi a prestito dalla storia e dalla saggezza contadina: i giardini domestici, le corti, le caditoie stradali, le fontane, le aree alberate, la forma stessa della città con le sue piante e le sue altezze, i colori e la materia di cui si forma. Un atlante complesso di fattori che governavano o meglio mitigavano la natura. Tutto impreziosito da quella sapienza costruttiva che caratterizzava ogni comunità con dispositivi precisi e contestuali, frutto di secoli di esperienze e di osservazioni. Cure verso la terra, attenti a gestire i collegamenti tra ogni parte della fabbrica: muro e terreno, copertura e paramento, infisso e soglia, albero e suolo, orientamento e altezze, soleggiamento e correnti. Un’alchimia di tecniche, di manualità, di esperienza, di materiali, di forme, attenti ad abitare i luoghi con un sacrale rispetto.
Ci sono città di pianura, di costa, oppure adagiate lungo declivi, ad ognuna serve un codice nuovo che “ripari” gli errori che si sono stratificati e che hanno snaturato le ecologie primordiali. Ma ad ognuna serve un piano di mitigazione, una strategia complessiva che punti alla sicurezza del presente e alla salvaguardia del futuro. Un piano, un progetto, che inverta il paradigma attuale. Attento ai vuoti più che ai pieni, sensibile agli spazi pubblici e privati pertinenziali più che agli edifici. Un’ibridazione tra piano paesaggistico locale (PPL), piano di protezione civile (PPC) e piano urbano generale (PUG). Perché intervenire qua e la, serve fino ad un certo punto. E non vogliamo tediarvi con ulteriori tecnicismi.
Ma certamente serve rendere permeabili più aree possibili.
Per disperdere le acque piovane, per trattenerle nei terreni vicinali (serve per mitigare le temperature urbane), per impedire le erosioni dei terreni a valle, per conservare e riutilizzare la risorsa preziosa.
Ma certamente serve piantare non alberi ma boschi, non puntualmente ma diffusamente, non cespugli ma arbusti, caduchi e sempre verdi, autoctoni e non esotici. Serve ripensare alla natura come un materiale da costruzione, come uno strumento di lavoro per ritrovare nuove ecologie, etiche e sostenibili. Una teologia urbana, una modalità filosofica che punta sul pragmatismo ecologico. Non basta andare a messa ed essere devoti dei santi, serve un’azione decisa e consapevole, diffusa, dalla scuola alle chiese, dalle associazioni alle istituzioni, dalla politica all’imprenditoria.
Mentre si discute di tutto questo nel mondo e anche vicino casa nostra, spariscono i tombini dalle strade, si tagliano gli alberi, si impedisce alle acque di trovare la loro strada naturale a valle (costruendo barriere urbane e stradali), si interrano i compluvi naturali e si chiudono sorgenti e fontane. Nemmeno i “Paraboliani” dei primi secoli dopo Cristo hanno fatto tanto; questa guerra alla natura è ingiustificata e da San Francesco a Papa Francesco mi pare che non ci siano più dubbi su cosa fare. Mentre qualcuno “smanetta”, la natura si riprende quanto dovuto con gli interessi. Siamo in piena emergenza e non possiamo più aspettare. In tutto il territorio nazionale, comprese le città stato. Domani – 22 maggio – festeggiamo la giornata mondiale della biodiversità, per ricordare ma anche per cominciare a fare.