Sulla Festa della Mamma, esiste una certa retorica mediatica che trasforma radicalmente il senso della ricorrenza.
C’è quella declinazione commerciale – ormai per tante cose – che trasforma una liturgia secolare in un semplice scambio commerciale. Una corsa al regalo per la mamma, con prezzi lievitati ad hoc come per le rose di San Valentino. Un caro prezzi che dura un giorno, tutto per colmare quella superficialità di affetti che ci caratterizza per tutto l’anno. Non è per tutti così ma le offerte commerciali ci trattano come se fossimo tutti in difetto nei confronti delle nostre mamme.
Certe ricorrenze come quelle della Festa della Mamma ci ricordano tante cose.
Non solo la nostra riconoscenza nei confronti della Madre, ma qualcosa di più cosmologico, di più trascendente, come un sottile legame che abbiamo tutti noi con la “madre terra”.
La “Mamma”, quindi, come allegoria di una maternità più ampia che definisce un perimetro più complesso, oltre la nostra personale esperienza. Non è un caso che proprio in questo periodo si celebrano feste e ricorrenze religiose legate all’idea di Madre. Sia nel paganesimo antico che nel moderno cristianesimo. Nella natura la terra comincia a germogliare, le gemme diventano fiori, frutti. La natura che ha conservato nel suo grembo ogni vita, la presenta alla luce del sole disponibile alle celebrazioni, manifesto della ciclicità della vita. Dopo la Pasqua, dopo la resurrezione, dopo il passaggio, dopo quella dimensione del nascondimento che ci ricorda la gravidanza delle nostre madri.
Una festa meravigliosa, di luce, di profumi.
Ogni comunità, coerentemente al proprio calendario agro pastorale, celebra la Madre, la Festa della Mamma. Un legame quasi assoluto, vitale, simbiotico, tranne in quei casi in cui si trasforma in un dramma come per Medea. Come quella di Euripide, Ovidio e Draconzio. Ma anche in questi casi, si ripropone il rapporto tra l’uomo e la natura. Un rapporto che si ripete da sempre con infinite varianti. La madre è sempre la madre ma qualche volta – impazzita – uccide i suoi figli. Come quella catastrofe climatica che ha messo in ginocchio l’Emilia-Romagna qualche settimana fa. Come madre Etna, per esempio, perché il vulcanesimo ci riporta sempre all’idea di madre.
Ma la madre è prevalentemente incubatrice, lo è anche quando noi siamo ormai adulti. Incubare, proteggere, sperare, sostenere. Un compito e una tensione che non è solo della madre – anche dei padri – ma che diventa iconograficamente e iconologicamente rappresentato da quel grembo, da quello sguardo, da quella dolcezza che solo l’arte ha saputo narrare mirabilmente.
L’Annunciata di Antonello da Messina, così intima e riservata.
Madre con bambino di Pablo Picasso, blu e tragica. La Madonna di Benois di Leonardo da Vinci, dalla dolcezza infinita, per cogliere quella la dimensione umana del divino. Si potrebbe continuare fino all’infinito; l’arte ha celebrato questo momento magico, quello del rapporto tra i figli e la sua generatrice. Lo ha fatto attraversando i secoli, i continenti. Ogni comunità agricola, sin dalla notte dei tempi, celebra in questo tempo, la Festa della Mamma.
Una devozione sincera, piena, che non solo celebra – come gesto collettivo – ma rinnova un patto indissolubile tra l’uomo e la terra. Tra un figlio e sua madre, tra gli uomini e le donne. Ma l’arte supera ogni possibile immaginazione e basta fissare lo sguardo che la Madonna della Catena di Antonello Gagini, quella attualmente in restauro a Paternò, che il mistero si svela. Madonna con bambino, cinta da una catena, con lo sguardo rivolto al bambinello che come noi, gioca e guarda altrove. Un’immagine maestosa, una scultura parlante, che accoglie i devoti e i visitatori. Una dolcezza infinita, un cinguettio di sensi e di emozioni. Un drappeggio sontuoso, fiorito e stellato. Un mistero di pietra parlante.
La Madonna della Catena, ci fa innamorare, ci fa perdere la testa.
Come se ci chiedesse di tornare bambini in braccio a lei. Lo sguardo tenero, rivolto verso suo figlio, le mani dolci e avvolgenti, per proteggere e sostenere, le proporzioni degne di un’opera di Policleto. Un mantello fiorato, i capelli sciolti.
Una donna che ha dismesso le vesti di bambina, che l’arte medievale imponeva, e veste quelle che il Rinascimento ha ritrovato: quelle divine e di madre, di santa e di donna. Un’opera che merita devozione, che sollecita la preghiera, che ci riconcilia con il creato. Che bellezza, che arte, che capolavoro.
In quella città che vive da sempre il femminino, dove le “donne” nella storia hanno determinato il destino di quella comunità, dove la Dea Madre trova il suo naturale santuario; dove dee e madonne, regine e ninfe, artiste e mogli, hanno scandito il tempo e gli eventi; in quella città il cui nome è femminile – da Hybla a Parthenos – ancora una volta, dopo Sofonisba Anguissola con la sua Madonna dell’Itria, riemerge dalla storia la Madonna della Catena: madre dolcissima.
Presto sarà presentata all’intera comunità, agli studiosi, ai devoti, a tutta la gente.
Oggi dobbiamo ricordare e celebrare, con devozione, con riconoscenza e per questo dobbiamo porgere un fiore nuovo, per rinnovare il patto tra la madre e i suoi figli, per curarla e coltivarla come per la terra.