Paternò, quando la banda passò tutta la città s’illuminò: il saluto al Maestro Finocchiaro che lascia la sua città

Paternò, quando la banda passò tutta la città s’illuminò: il saluto al Maestro Finocchiaro che lascia la sua città

Arriva la Banda, la musica invade le strade, la gente spalanca le porte e i bambini sono già tutti in strada a battere le mani.

Una festa, un carosello di note allegre o una musica triste, poco importa, la banda musicale della città è tornata in mezzo a noi. Come una colonna sonora, come un film di Federico Fellini, invade piano piano le vie della città con quella musica che sembra una marcia, una parata, una processione. Non può esistere una festa, una ricorrenza, un evento, senza quella banda, fatta di mille storie, di uomini e donne, piccoli e grandi, tutti con uno strumento in mano, una divisa e a precederli il maestro della banda.

Oggi questo maestro – a Paternò – è Felice Grasso. Ieri era Barbaro Finocchiaro.

Lo è stato per molti anni, quasi sembra un secolo. Un uomo minuto, ironico, determinato e perseverante. Un sorriso semplice, lo sguardo attento con le mani che sono una tempesta nell’aria, quando serve misurare il tempo della musica. Ha bussato a tutte le porte, da sempre, per organizzare e strutturare quel manipolo di suoni viventi che non sono stati solo musica, hanno costruito un modello didattico, un’esperienza umana, un gruppo unito per uno scopo.

Il vecchio maestro, dopo aver consegnato la bacchetta – che sembra quella di Harry Potter – si avvia ad andare oltre, altrove, in un’altra terra, lontana dalla nostra isola del sole. Per questo, quel gruppo di musicanti, romantici e credo riconoscenti, hanno voluto celebrare con un concerto quel piccolo uomo, ormai dai capelli bianchi, dai movimenti lenti e dalla parlantina senza fine, perché in lui c’è il desiderio di raccontare – ancora una volta – una storia fantastica e avventurosa, quella del maestro della banda della città di Paternò.

Non è facile parlar di lui, adesso, per tanti motivi. Ma lo ha descritto in maniera mirabile suo figlio, che lo ha chiamato Maestro, dandogli del lei. Un audio messaggio che ha invaso la sala, rubando lacrime e sorrisi. Come fosse l’ultimo saluto, come fosse l’ultima partenza. Forse lo è davvero, forse, quell’uomo che ha vissuto dentro e con la musica nel cuore, amando la sua città, le sue antiche pietre, decorandole di note e suoni soavi, non tornerà molto presto. Un gesto che non è una fuga ma un desiderio di passare i suoi ultimi anni – speriamo tanti – più vicino ai suoi due figli, Francesco e Antonio. Più vicino ai suoi nipoti, ai suoi affetti. Come trattenerlo? Ma resta la sensazione che non tornerà più, forse la sua musica, forse il suono della banda in città, forse quell’album di fotografia uscite da una cassa di legno che abbiamo visto tutti seduti comodamente nelle poltrone del piccolo teatro a Paternò.

Una festa, una celebrazione, un omaggio.

I volti dei componenti della banda, ieri, erano la cosa più bella da guardare. Tutti con lo sguardo rivolto verso le immagini che scorrevano davanti a loro: con la bocca aperta, con un sorriso, anche con una lacrima sul volto, malinconici e severi. Vivevano il loro presente che affondava le radici sul passato, un passato sempre presente ma che ora andrà via. Targhe, abbracci, fiori, ironiche battute. Applausi, risate, timori, per quel microfono che rischiava di restare nelle mani del vecchio maestro, desideroso di raccontare, di spigare, di dare conto della sua vita, come se fosse già davanti all’ultimo giudice. Con lui c’era la moglie, la voce dei figli e la sua famiglia. Amici, testimoni della storia della città, brava gente. Grandi e piccoli, nobili e contadini, un’ecclesia di gente che voleva salutare un figlio di questa terra.

La musica ha il potere di far incontrare tutti, di renderci migliori, di emozionarci e quando questa è la musica della banda della città, tutto diventa magia, liturgia e comunità. Dentro quella banda c’è di tutto: il commercialista, l’architetto, il professore, la casalinga, il disoccupato, la studentessa, il muratore, il falegname, il nonno, come se fosse un piccolo mondo. Che meraviglia, tutti insieme a suonare la stessa musica, la stessa melodia. Se le nostre comunità, traessero ispirazione da questo modello, avremmo città più belle. Ma per suonare dobbiamo essere bravi a farlo, precisi, coordinati, e sapientemente diretti. Dobbiamo diventare come una banda musicale per rendere le nostre città più felici e accoglienti.

Ma la musica della banda non è solo questo, è anche restauro e recupero delle tradizioni.

Un lavoro prezioso che tenta di conservare la memoria collettiva, quella etnoantropologica. Non solo musica ma storia della musica e quindi storia di una comunità. In una città che vanta tante tradizioni musicali e teatrali, che ha cullato illustri personaggi, oggi spesso dimenticati. Protagonisti della lirica e del pop, del teatro e del cinema. Quel piccolo teatro, gioiello incastonato nel complesso delle Benedettine, sotto l’elegante loggetta, dovrebbe ospitare – oltre alle nobili vicende dei cantastorie, anche le testimonianze di un patrimonio più vasto di esperienze musicali e artistiche che questa città contiene – spesso -segretamente. A partire da quel Giulio Crimi che sembra dimenticato fino al pop degli anni ’60 e ’70 e perché no, compreso Maurizio Musumeci e Giovanni Calcagno (e tanti altri) perché non serve che la gente debba partire, per poi doverla ricordare. Un museo della musica, della storia dello spettacolo, dall’antichità ad oggi in maniera trasversale. Non ci stancheremo mai di dire che ricordare e celebrare la nostra memoria (tutta) è necessario per garantire un futuro alla nostra società, sempre più disattenta e superficiale, attratta dalle mode che non riconoscono le loro radici antiche.

Applausi, scroscianti, la festa è finita, il palco si svuota, i musicanti scendono e riprendono le loro vite, come se si spogliassero delle maschere indossate per il tempo dello spettacolo. Abbracci, sorrisi, lacrime, le mani che stringono mani, gli occhi lucidi che incrociano altri occhi. Tutti a prendere qualcosa da Scuto, il ristorante della piazza, quello dove si va dopo lo spettacolo. Tutti insieme, consapevoli che qualcosa è già finito, che la valigia è pronta e il treno sbuffa.

Caro Maestro, è stato un piacere averla conosciuta, un solo rammarico, non aver avuto la determinazione per continuare a studiare la musica con lei. Ma rimane dentro ogni mio gesto, la necessità di musicare la città, le sue vie, i suoi vicoli stretti e tortuosi, l’esigenza di promuovere l’arte e la cultura, con un’altra arte, con altri strumenti, pensando sempre a quel Peppino (d’Inessa) che musicò con i colori i nostri paesaggi.
Ora non ci resta che augurarle buon viaggio, buona strada, sicuri che ovunque andrà, proverà a musicare ancora una volta le pietre vive delle città che incontrerà, stavolta accompagnato dalla sua discendenza più diretta.

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

1 Comments

  1. Naso bis ovunque come il prezzemolo, tranne nei problemi veri che attanagliano questo paese dove grazie a Lui i suoi concittadini SUNU PESSI

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