«Non ho gradito circolasse pattumiera con un fondamento nel nulla dentro il Csm. Per me era grave che all’interno del Consiglio si usassero questi strumenti per mettere in cattiva luce un consigliere».
È un passaggio della deposizione di ieri di Sebastiano Ardita, ex componente di Palazzo dei marescialli e parte civile al processo in corso a Brescia in cui Piercamillo Davigo, pure lui ex membro del Csm, è imputato per rivelazione del segreto di ufficio per il caso dei verbali di Piero Amara.
Ardita, che con Davigo aveva fondato il gruppo Autonomia e Indipendenza, ha ripercorso in aula le vicende che hanno portato, secondo la sua versione, alla rottura dei loro rapporti. Ardita, che si ritiene danneggiato dal fatto che i verbali in cui Amara lo ha annoverato tra coloro che facevano parte della presunta associazione segreta siano stati consegnati dal pm Paolo Storari a Davigo, da questi mostrati ad alcuni consiglieri del Csm e infine recapitati in forma anonima a due quotidiani, ha aggiunto: «Contenevano dichiarazioni sgangherate, che non avevano nulla a che fare con la mia persona. Erano cose appiccicate da chi sente qualcosa e mette insieme», ha ripetuto per sottolineare la falsità delle affermazioni dell’avvocato siciliano, nei cui confronti lo stesso Ardita, ha indagato incriminandolo.
Il testimone ha detto anche che Davigo non solo «aveva capito perfettamente che le dichiarazioni di Amara erano false» ma che era stato informato nel febbraio 2020 del loro contenuto (i documenti Storari li ha consegnati ad aprile di quell’anno). Infine oltre a precisare che, qualora il plico con i verbali fosse stato inviato in modo corretto al Csm, «il comitato di presidenza lo avrebbe richiuso e mandato indietro», ha aggiunto di non aver «mai visto il consiglio ricevere carte di indagini coperte dal segreto».
E sempre in merito alle frizioni, culminate con una feroce discussione per la nomina del Procuratore di Roma, Ardita ha sottolineato: «Mi sono sentito delegittimare perché accomunato a quelli del caso Champagne».