Può capitare che un sabato sera di Carnevale ti ritrovi a passeggiare per caso sull’acropoli di Hybla a Paternò, con l’architetto spagnolo (Alicante) Francisco Leiva.
Non capita tutti i giorni ma è pur sempre un’occasione buona per parlar di architettura e di paesaggio, per vedere con occhi nuovi un frammento di città ed incontrare alcuni personaggi iconici, lungo questo piccolo viaggio tra chiese, piazze e monumenti sparsi in città.
Francisco Leiva, del Grupo Aranea, è l’autore del progetto, più volte premiato, “El Valle Trenzado” che ha trasformato il tema dell’attraversamento fluviale in una poetica narrazione del paesaggio. Dalla necessità di inserire un’infrastruttura viaria alla possibilità di trasformarla in un dispositivo di socialità e naturalezza. Attualmente il Grupo Aranea è impegnato in alcuni progetti in Corea del Sud e a Valenzia con il Piano del Verde Urbano. Grazie all’invito dell’Ordine e della Fondazione degli Architetti PPC di Catania – che in questi giorni hanno presentato i risultati di un workshop sulle aree dismesse della metropolitana ad Adrano, Biancavilla e Santa Maria di Licodia – Francisco Leiva ha potuto visitare quel gioiello paesaggistico, culturale e monumentale che è appunto l’acropoli di Hybla.
Un’occasione per riflettere non solo sul “luogo” ma anche sullo statuto disciplinare dell’architettura e sulle sue possibili declinazioni, etiche e culturali. Alcune cose some emerse prepotentemente: la bellezza delle relazioni e l’assenza degli alberi nello spazio urbano. La notte ha confezionato una serie di cartoline immaginifiche che hanno restituito un palinsesto straordinario di relazioni fisiche e simboliche. La torre normanna e la chiesa di Santa Maria dell’Alto, quest’ultima con la scalinata settecentesca; la dialettica – tra antichità e modernità – nel convento di San Francesco e la sua urbanità ritrovata; la preziosità della chiesa della Gangia, come diamante prezioso incastonato in un tessuto ancora da rimodellare; le chiese lungo la via Fabaria: Santa Barbara, il Carmine, il Pantheon e San Biagio; la scenografica chiesa dell’Annunziata in piazza Canali (indipendenza).
Dagli scavi archeologici dell’acropoli della città greco-romana al patrimonio medievale e rinascimentale per poi tuffarsi nelle sfarzose manifestazioni barocche della città bassa. Ma non solo una passeggiata tra le pietre, per parlare di Antonello Cagini e Sofonisba Anguissola (che a Madrid ha data tanto), anche tra la gente e tra questi i due parroci – Salvo Magrì e Salvo Patanè – custodi delle due chiese simbolo della città. Ma non poteva mancare un passaggio alla santa patrona, che poi è anche protettrice degli architetti e quindi un piccolo tour tra reliquie, candelore e vare della Santa con quell’Alessandro Messina che ormai ne conserva la memoria per tutti noi. Una pizza all’ottavo senso e dopo, per fare due passi, un tratto di strada principale, da piazza Umberto a piazza Regina Margherita, solo per ascoltare un pezzettino di Carnevale e raccontare quello di una volta, perché quello di oggi è solo “musica e magia”.
Un viaggio piccolo e intenso, una visita attenta e alcune riflessioni da condividere insieme. L’acropoli ha un potenziale immenso; le sue relazioni, come quelle generate dalla Scalinata, sono straordinarie; un palinsesto di storia ricco e prezioso, forse dovrebbe essere “abitata” con attività continue e non occasionali. La scena del sagrato della chiesa Madre è il luogo per immaginare un teatro all’aperto per narrare le storie e godere di una delle viste più belle della Sicilia, verso l’Etna. Poi quella magia della doppia identità, da una parte le luci della città e dall’altra il silenzio della campagna, una compresenza unica con le luci misteriose del cimitero di notte. Condividiamo e rilanciamo.
Ma c’è dell’altro. L’architettura deve dare risposte e si deve preoccupare più dei vuoti, dello spazio pubblico, delle relazioni e della natura. La cosa che colpisce è l’assenza di alberi nel corso principale, nella piazza canali e a piazza Regina Margherita. Gli alberi sono l’essente più ingombrante per Francisco Leiva, più del carnevale senza maschere. Oggi il progetto di architettura deve occuparsi – tra le altre cose – della rinaturalizzazione dello spazio urbano, del recupero delle rovine, ma in particola modo della riattivazione delle relazioni urbane. In mezzo a tutto questo, il racconto di arricchisce degli esempi spagnoli e coreani, più attenti all’esigenza di ritrovare un nuovo equilibrio con la natura.
Anche la necessità di orientare e fondare un’architettura – del vuoto e del pieno – pensando alla cosmologia, alla pedologia, alla spiritualità e all’ambiente. Pensare quindi ad architetture che governano l’attacco a terra, in questa terra fatta di pietre nere e bianche, quella torre normanna che sembra nascere dalla bocca di un vulcano, innestata nella storia. Come quella bifora grande e passante che ritroviamo nel progetto del convento di San Francesco e l’idea stessa di innesto tra antichità e modernità, tanto caro agli architetti di un tempo e ora quasi sconosciuto. Il paesaggio, come metodo, come tavoletta grafica su cui disegnare la nostra modernità, come obiettivo. Gli alberi, la natura, la vegetazione come parte del paesaggio che insieme agli uomini lo trasformano e quindi la necessità di progettare questa trasformazione.
Cultura topica invece che atopica. La materia del costruire e dell’inventare che declina, oltre la pietra, anche tutti gli esseri viventi. Un paradigma apparentemente ovvio ma in fin dei conti poco praticato. Francisco Leiva è un architetto poeta, un narratore della natura da cui scaturisce l’architettura. Come un pittore del ‘700, raccoglie e racconta i paesaggi per ritrovare il senso del progetto e le sue più utili declinazioni. Dietro quella apparente contraddizione tra il suo disegno – quasi infantile – e le sue architetture costruite, che spiccano nel panorama interazionale, c’è quell’arte della “tecnica” a cui noi tutti aspiriamo. Arte che trasforma ogni tema, anche il più marginale e infrastrutturale in poesia pura.
Una bella passeggiata, intima e fuori dai riflettori, sincera e semplice. Ma utile per rigenerare l’anima e ritrovare il sentiero dell’etica dell’architettura in un momento complicato per la città e non solo, possiamo dire per l’intera comunità etnea che avrebbe una nobiltà dell’architettura da imitare come Riccardo da Lentini, Gian Battista Vaccarini, Stefano Ittar, Francesco Fichera, Giacomo e Rosario Leone, solo per citare qualcuno a caso. Mi piace pensare, che certe passeggiate, andrebbero fatte più frequentemente, oltre ai convegni, magari con un pubblico più ampio e diversificato, non solo per gli addetti ai lavori; per far tornare l’architettura e la cultura del progetto tra la gente e non solo nei salottini.