Le torri ci fanno paura, oppure ne restiamo incantati.
Simbolo da sempre del potere, della bramosia dell’uomo verso il cielo. Sono una sfida alla gravità, un tentativo ossessivo per raggiungere Dio. La torre di Babele è l’immagine più eloquente, il simbolo universale, l’icona dell’uomo moderno. Nei secoli, i popoli si sono sfidati per raggiungere le altezze più impossibili. Ogni architettura è stata pensata per svettare, per imitare le montagne, per osservare verso ogni orizzonte. Il passo che precede il volo, quello di Icaro (che muore) e Dedalo (che vive).
L’uomo cambia la sua prospettiva, l’immagine stessa che ha della terra. Non più parziale, fatta di successivi scorci; verso il mare, il bosco, la valle e le cime innevate senza fine. Una visione nuova, metafisica, esclusiva e riservata. Quella dei sacerdoti mesopotamici che osservavano le stelle e i pianeti alla ricerca dell’ordine divino; quella delle città arroccate sulle montagne dell’America Latina e della Grecia Micenea. Quasi una contrapposizione tra la città orizzontale e la città verticale. In alto, sulle acropoli, lo spazio sacro: luoghi del potere dell’élite politico-religiosa.
I Titani uccidono Dionisio, separano le parti del suo corpo, per poi rimontarlo sull’altare sacrificale come una mappa geografica, allo stesso modo. Una metafora raffinata per rappresentare l’immagine della terra dall’alto. Ancora un dispositivo per osservare da un punto di vista diverso, da una torre immaginaria. Non tutti possono accedere alla torre, alla sua parte più vicina al cielo, solo gli iniziati. Nell’immaginario collettivo, nelle comunità, la torre subisce ostracismi, pregiudizi, diffidenze. Come sfida all’ignoto, come rappresentativa del potere, come invadente dello spazio, come innovazione tecnologica.
La torre, le torri. Nelle città della modernità, Tokyo, New York, Londra, Dubai, Shanghai come in quelle della memoria, Bologna, Siena, Lucca. Un atlante infinito di verticalità che sfidano ogni legge di gravità per narrare la stessa storia: l’uomo che desidera assomigliare a Dio. Anche il “bosco verticale” di Stefano Boeri, in qualche modo si pone come “grattacielo” come colui che sfiora il cielo e lo gratta.
Ma la torre è anche il dispositivo per consumare meno suolo, per razionalizzare i servizi, per ottimizzare i costi, per costruire nuovi paesaggi iconici. Come i grattacieli orizzontali, come quelle verticalità che rendono reticolare la città barocca. Come fosse un bosco artificiale (se osserviamo la city di Londra), fatto di livelli, dai sotterranei passando per i vari piani fino a raggiungere le terrazze esclusive. Lo guardiamo sempre con immutata diffidenza ma desideriamo esserci dentro, in alto, per ritrovare quella natura che ci offre l’orizzonte. Per immaginarci in volo, pur restando fermi a terra.
Un’illusione, un sogno, una metafora. Tra tutte quella che ancora oggi affascina e Torre Guinigi a Lucca. La sua forma, la materia di cui è fatta, il contesto urbano in cui si colloca e quel ciuffo di alberi sulla sua sommità le conferiscono una bellezza infinita. Non solo per il godimento estetico ma anche per la sua raffinatezza strategica rispetto al tema della sostenibilità e della utilità. In pratica la sua terrazza ospita orti e arbusti secolari. Sembra un fumetto, un fotomontaggio, uno scherzo, ma è vera e rappresenta una modalità dell’abitare di una modernità disarmante.
Dalla Domus Romana e dalla Torre Guinigi possiamo estrapolare due archetipi utilissimi per immaginare la città del futuro. L’uno e l’altro costituiscono – opportunamente rimodellati – due diversi modi di immaginare lo spazio, due soluzioni possibili per abitare. Modi che comprendono il costruito e lo spazio vegetale. L’artificio e la natura compresenti e funzionali. Una declinazione della sostenibilità che andrebbe coltivata più diffusamente. Non solo per le parti di città ancora da fondare (sempre meno) ma anche per la rigenerazione dei tessuti consolidati.
Certamente non è possibile estendere questi modelli tipologici, indiscriminatamente, in particolar modo nella città storica, ma elevare è possibile e necessario. Ma sempre dentro un recinto normativo che il progetto di architettura deve dimostrare fattibile e opportuno. Forse la torre o le torri sono e devono restare eccezioni, iconiche, rappresentative e funzionali per generare nuove polarità urbane e paesaggistiche (silos, ecc.).
La tecnologia, le tecniche e i processi produttivi edilizi, ad oggi incoraggiano a esplorare in questa direzione, a sperimentare queste forme, questi organismi complessi. Sperimentare anche in chiave didattica nelle scuole di architettura, senza ideologizzazioni, senza pregiudizi. Cosa succederà alla città costruita nel futuro? Quando le obsolescenze edilizie saranno irreversibili. La maceria (rifiuto), il tracciato (la memoria), gli orientamenti (la cosmologia) la mobilità (le costellazioni) saranno i materiali della trasformazione e la riduzione dell’uso dei suoli, la strategia più utile a tutto vantaggio della rinaturalizzazione della città.
Un paradigma già praticato in alcune parti del mondo ma che deve fare i conti con il paesaggio delle città europee, con i suoi ambienti storici, con le sue vedute rinascimentali. Ma sempre guardando quell’esempio sublime che è la Torre Guinigi. La nostra innata resistenza, la nostra paura della modernità deve lasciare il posto alla cultura del progetto di architettura, come strumento di verifica della trasformazione necessarie. Oggi dobbiamo disegnare le città a partire da queste osservazioni senza dimenticare che l’uomo e la necessità di migliorare il suo abitat rimane una priorità imprescindibile, compreso il suo coinvolgimento nei processi decisionali.