Si è creata una frattura sul fronte degli ambientalisti.
Il tema è quello del fotovoltaico e dell’eolico in relazione all’esigenza (imprescindibile) di tutelare il paesaggio. Si è creato un fronte governativo e uno in antitesi. Il primo più sensibile alla conservazione e il secondo più possibilista. Speriamo che non sia solo una questione di appartenenze politiche parlamentari.
Il paesaggio italiano è stato violentato più volte e non necessariamente con gli impianti per la produzione di energia rinnovabile (quelle che non usano le fonti fossili come carbone, petrolio ecc.). Le armature fisiche e culturali del territorio, così come le abbiamo ereditato dalla storia, le abbiamo stravolte irrimediabilmente, avendo colonizzato quantità infinite di suolo. Ma non basta, lo abbiamo fatto nel peggiore dei modi. Come fosse una pioggia acida, a cascata, senza nessun criterio, se non quello del profitto convulsivo, abbiamo imbrattato ogni cartolina, qualunque scenario urbano e rurale. Compromesso ogni possibile luogo con metastasi di ogni forma e colore. La cosa più grave è che questo “modus” di procedere ha creato, lungo il suo cammino: relitti, ruderi, incompiute e interstizi irrisolti.
Ci siamo accorti troppo tardi, dopo aver buttato i mobili buoni dalla finestra, che quelli che avevamo comprato erano di fòrmica e persino inutili, per usare una metafora. Adesso abbiamo compreso – non tutti a dire il vero – che il pianeta ha bisogno di cure, ma anche la nostra economia ha bisogno di cure e quelle ricchezze che – gratuitamente – ci offriva il paesaggio, devono essere recuperate. Le città storiche, gli ambienti naturalistici, la rete delle connessioni, le risorse produttive e tanto altro hanno bisogno di essere tutelate, non solo sotto forma di vincolo puntuale ma come attenzione agli ambienti di prossimità e anche di più. Quindi, tutela di quella parte di ambiente che abbiamo definito (la UE a Firenze nel 2000) come “paesaggi”.
Ma come possiamo tutelare i paesaggi se non li riconosciamo?
Senza una consapevolezza diffusa, si rischia di dibattere su questioni futili, contrapporre “visioni”, per restare, alla fine, in quella zona del confronto dialettico, meglio conosciuta a Catania, come di chi fa “polpette” (colui che parla, parla, ma alla fine non dice nulla di utile e risolutivo).
Una cosa sembra essere certa, la superfice già costruita, se impegnata integralmente per accogliere il sistema fotovoltaico, escludendo quelle superfici che impattano negativamente sugli scenari da proteggere, si ridurrebbe di molto persino le polemiche di questi giorni. Sull’eolico la questione è più complessa, l’ambito più ampio e quindi le valutazioni più difficili; poi c’è la criticità delle infiltrazioni della “malavita” che spettano alla magistratura, ma questa è un’altra storia, da non sottovalutare.
Diamo per scontato che sulle nuove costruzioni e sui nuovi insediamenti si faccia chiarezza in termini di controllo della qualità, sia sul piano tecnologico che paesaggistico. Che significa, che ancora una volta la validazione dei progetti – a tutte le scale – deve essere diversa da quella esercitata fino ad oggi. Valutatore e valutato dovrebbero essere i primi a riconoscere il valore della bellezza e la necessità di tutelare i paesaggi, ma spesso questo non avviene, c’è quando va bene solo una valutazione quantitativa e non qualitativa. Possiamo girarci attorno quando vogliamo ma il punto è proprio questo. Non esiste in natura nessuno intervento che non produce un impatto sul paesaggio, e lo stesso paesaggio che oggi vogliamo tutelare non è altro che il risultato di quelle trasformazioni che si sono stratificate nel tempo (geologico e culturale).
La questione è cosa vogliamo lasciare in eredità alle future generazioni e come. Se l’ecologia intesa come l’arte dell’equilibrio tra uso e conservazione delle risorse è una moda del momento o una necessità per sopravvivere su questo pianeta. La storia ci insegna ancora una volta quale è la via possibile. Indica quelle modalità insediative, produttive e di gestione delle risorse che hanno permesso di ereditare quel paesaggio che oggi dobbiamo salvaguardare. Ma serve una piattaforma etica e morale, una conoscenza dei processi, la dimestichezza al tema della “complessità” dei sistemi, tra loro interconnessi. Forse anche una certa forma di “umiltà” e di maggiore considerazione nei confronti degli “specialisti”, che nel tempo dei social e del web, sembrano essere al pari dei “leoni della tastiera”.
Il male diffuso è la bramosia verso del profitto irreversibile.
Anche a costo di sprecare le risorse collettive come l’inquadratura di uno scenario che ci accompagna verso un tramonto, un profilo, più in generale verso il ricco tesoro dei nostri paesaggi italiani. Pensando che questi non hanno valore se non afferenti al romanticismo ottocentesco. Invece sono risorse economiche oltre che culturali e ambientali, portatrici di reddito e ricchezza. L’Italia è la prima produttrice di paesaggi al mondo, tra i più belli e variegati. Basterebbe vederli da questo punto di vista. Ma per farlo ci vuole conoscenza, professionalità, competenza ecc. ed è qui che spesso casca l’asino.
Bisogna educare, a partire dalle scuole, alla capacità di individuare “obiettivi”.
Spesso, il punto dolente è che non sappiamo, a monte, cosa desideriamo veramente, cosa possiamo chiedere alla politica, come realizzare i nostri desideri sociali, culturali ed economici. Arraffare quello che abbiamo sottomano è la pratica più diffusa – non solo nelle nuove generazioni. Immaginare un mondo migliore sembra essere diventata una pratica esoterica e di nicchia, sacrificata dal motto “lo vuole il popolo”, come dire lo vuole dio. Ma non è così.
I nostri territori hanno bisogno di cure specifiche, di attenzioni, ma prima di tutto di capacità di lettura delle tante armature della complessità, come invarianti e strategie – a questo punto – rigenerative; questo ci vuole per curare il grande malato, il paesaggio del nostro Paese Italia. Risorse finanziarie ma anche culturali. Bisognerebbe inventare un Pnrr sulla valorizzazione delle risorse umane per sviluppare ricerca spendibile capillarmente nei territori compromessi. Ma si deve partire dalla scuola, dalla formazione, dall’educazione permanente. Per andare avanti bisogna guardare bene indietro come quando si prende la rincorsa per poi saltare l’ostacolo.
Al netto delle polemiche, forse troppo strumentali, tutelare i paesaggi significa partire dal microcosmo sotto casa fino alla foresta amazzonica. Gli ambientalismi settoriali convincono poco, specie quando guardano solo da un lato scordandosi le brutture che ci sono alle spalle, o peggio ancora rendendo tutto più demagogico e retorico. Per rendere più green il nostro patrimonio residenziale serve un bisturi e non una ruspa. Per rendere il nostro patrimonio normativo più efficace serve un certo pragmatismo e non gli idealismi sterili e precostituiti. Per salvare il nostro pianeta serve progettare e pianificare eticamente, puntando alla qualità, riconosciuta e non quella che deriva dal “barabbismo”. Quest’ultima è pericolosissima e ne vediamo gli effetti ogni giorno. Ma i “barabbisti” nemmeno si accorgono di esserlo.