Tornare a parlare di paesaggio – non solo in termini estetici o di tutela – è indispensabile se vogliamo migliorare veramente la qualità dello spazio.
Le campagne e le città sono contaminate dagli innumerevoli interventi che si sono stratificati nel tempo; che hanno modificato, anche radicalmente la nostra percezione dei valori. Se confrontiamo le immagini di alcune città, dagli anni ’20 ad oggi, scopriamo come sono state stravolte e ampliate fino a costituire vere e proprie metastasi senza soluzione di continuità. Se guardiamo attentamente, troviamo tra le tante pulsioni edificatorie innumerevoli interstizi irrisolti, relitti fondiari ed edilizi abbandonati, tentativi approssimativi di fare città.
Durante questi anni, (1939-2022) abbiamo usato un lessico coerente per governare le azioni di conservazione e trasformazione dell’ambiente che nel frattempo si è evoluto, passando dall’idea di “monumento”, a quella di “centro storico”, fino al più recente concetto di “paesaggio”. Sono tre categorie che descrivono il rapporto tra lo spazio fisico – naturale, rurale, urbano – e il valore che gli abbiamo attribuito. Un valore che muta nel tempo e si allinea alle diverse condizioni culturali e al contesto.
Non c’è stata una simultaneità nel nostro Paese Italia, sia nell’uso del termine che della sua ricaduta sul piano della pratica del progetto, a tutte le scale. Ma nemmeno se guardiamo indietro nel tempo, non si spiegherebbe la bellezza di alcuni paesaggi (urbani e rurali) rispetto ad altri che sono stati invece massacrati: pensiamo all’area di Augusta (Sicilia) rispetto a quella di Assisi (Umbria). Filari, confini, tessiture, casolari e sentieri, trattati diversamente. Protetti, manutentati e riparati oppure (in molti casi) sostituiti, abbandonati e persino eliminati. Due visioni diverse nel rapporto tra antichità e modernità, tra tradizione e innovazione, tra forma e funzione.
L’obiettivo sotteso, nella logica della tutela del monumento, era salvare l’oggetto in sé, sacrificando il suo intorno significativo, qualunque esso fosse. Nella logica del centro storico era invece fondamentale salvaguardare un ambito più ampio, individuato all’interno del perimetro storico del bene, come testimonianza di civiltà e sulla stessa linea l’idea dei parchi naturalistici. Oggi, il concetto di paesaggio estende questo ambito, lo dilata, fino a comprendere – oltre la figura – lo sfondo. Ma nella carta europea del paesaggio del 2000 (Firenze) si chiarisce che si deve parlare di paesaggi e non di paesaggio al singolare e per questo entrano a far parte di questa categoria altri ambienti significativi come gli spazi immateriali; per esempio il paesaggio sonoro e antropologico.
Ma la definizione di paesaggio, la sua disciplina, le sue implicazioni sul piano pratico e teorico sono rilevanti per molte altre discipline. Significa uscire dall’idea di isolamento dell’oggetto – che diventa soggetto – e riconoscere il valore delle relazioni tra esso e il suo contesto vicinale (intorno e sfondo), anche per i paesaggi immateriali, figuriamoci per quelli materiali come una porzione di città, di natura o di campagna. Dentro questo ambito ci stanno i confini (catasto di pietra), le tipologie costruttive, morfologiche e tipologiche; le tracce della mobilità storica, i filari, le infrastrutture agricole (trazzere, rasole, muretti e acquedotti); dentro tutto questo ci stanno le feste popolari, che si confrontano con le scenografie urbane (piazze e palazzi che diventano lo sfondo delle processioni).
Un palinsesto ricco e articolato di visuali, percorsi, soste e vedute. Dove ogni parte dialoga con la storia, la natura e il divino. Dove l’artificio è la sedimentazione nel tempo, dell’inventiva umana che vive di continue metamorfosi, come tentativi di “aggiustare” il tiro o di adattarsi alle innovazioni tecnologiche, senza perdere di vista la necessità di rispettare il creato. L’arte del fare bene.
Ma se a dispetto di questa sensibilità – utile, pratica, ecologica ed etica – tentiamo di sporcare il paesaggio con interventi puntuali nella concezione, sconnessi all’ambiente, come uno stupro convulsivo nei confronti dell’umanità; se continuiamo a pensare di macchiare le nostre campagne con mostri fuori scala che chiamiamo “capannoni”; se insistiamo a consumare il suolo. a non ricucire le ferite, a piantare edifici come fossero funghi; e se continuiamo a pensare che non c’è altro modo per rendere ricca e felice una comunità se non violentando la sua terra, allora siamo dentro un girone infernale, dove chi pratica questi riti demoniaci ha venduto l’anima al diavolo, certamente per interessi.
C’è la possibilità di coniugare, la necessità di conservare la bellezza del paesaggio con quella di trasformarlo, per ricavarne ricchezza economica. C’è questa possibilità, ma non dentro l’illegalità e l’arroganza, semmai dentro la pratica del progetto, del piano, della ricerca dell’equilibrio complessivo tra gli interessi privati e quelli pubblici. Ma serve consapevolezza, senso dello stato, rispetto per la collettività e per il “merito”. Perché se andassimo a chiedere a un falegname di aggiustare la nostra automobile, significa che non sappiamo cosa fanno, sia il meccanico che il falegname e pensiamo persino che tutti possono fare tutto, e il risultato è devastante per la vita dell’intera comunità. Allora la definizione di paesaggio torna utile per orientare le scelte politiche e culturali, economiche e sociali. Il singolo oggetto come monumento oppure il soggetto come parte di uno spazio più ampio dal valore paesaggistico? Sembrano domande “filosofiche” ma sono questioni di politica o meglio ancora, di etica della politica. Cose pratiche che hanno implicazioni nella vita della gente.
L’acropoli di Hybla-Paternò è stata monumentalizzata e il suo intorno deturpato, oggi è necessario occuparci sia di quello che resta del monumento (anzi approfondire) e nello stesso tempo riparare il suo intorno, le sue aderenze, le sue possibili vedute, per valorizzare il “fondo” e la “figura”. Tutto questo anche nelle campagne, che sembrano la discarica delle idee folli, come una terra di nessuno e per questo violentabile di nascosto, lontana dagli sguardi della città.