Sulla morte come ripartenza per tornare alla terra: e ora lasciateci piangere una di noi

Sulla morte come ripartenza per tornare alla terra: e ora lasciateci piangere una di noi

Siamo foglie sostenute dal vento.

Fluttuanti, nell’infinito cosmo, alla ricerca di qualcosa che non ha forma e sostanza. Proiettati verso un orizzonte incerto, immaginifico, spesso rarefatto. Nasciamo dentro un mistero, saturo di relazioni alchemiche che rimbalzano brandelli di chimica e memoria.
Nasciamo, viviamo per poi rinascere, dopo ogni morte. La morte, intesa come il limite tra due vite, confine tra due viaggi, porto e approdo, filo sottile che spezza e ricongiunge. Siamo fragili, provvisori e finiti. Sottili e impalpabili, fatti prevalentemente di ricordi trascendenti.

Costruiamo finte cattedrali, grattacieli effimeri e ponti senza spalle.

Sulla morte come ripartenza per tornare alla terra: e ora lasciateci piangere una di noiImbastiamo tessuti con fili d’oro in telai d’avorio per restituire, poi, ogni cosa alla nuda terra. Rimangono i profumi delle nostre parole, le scie invisibili delle nostre mani che disegnano l’aria. Rimangono i suoni delle risate e i solchi delle lacrime sulla sabbia.

Troviamo relazioni comode e accomodanti, legami indispensabili con altri simili; con le pagine di un libro o verso un paesaggio sacro. Come Penelope con il suo telaio, usiamo le mani per fare e disfare, per costruire e distruggere, per sperare e disperarsi. Un pendolo dalle oscillazioni quasi infinite, che ci porta, dalla profondità della terra, fino alla cima della torre di Babele, per poi ricominciare. Senza sosta, senza pace.

Ci ostiniamo a raccogliere ogni cosa, ad accumulare, a conservare, a conquistare, ma spesso la bisaccia è bucata e alla fine rimane vuota, forse inutilmente. Allora conserviamo altro: sorrisi, risate, danze, canti, poesie, parodie, viaggi e pianti segreti, sogni infranti e mani che toccano altre mani, occhi che rubano sguardi, emozioni che si perdono nel tempo.

Siamo una città, un dialetto, una canzone, un libro, un mestiere (una scuola).

Siamo sempre il nostro mestiere, dentro il quale riversiamo ogni nostra esistenza visibile e invisibile. Siamo la comunità a cui apparteniamo, siamo il tempo che passiamo con la gente, le passeggiate lungo i corridoi e nelle piazze di Bisanzio. Siamo carne viva, essenza di un divino inafferrabile. Siamo per sempre – non tanto la nostra bisaccia di stoffa bucata ma – la memoria impressa negli altri, in tutte quelle donne e quegli uomini che abbiamo incontrato, nelle discendenze, nelle aderenze, nei figli che hanno il nome dei nostri alunni, nei cuccioli d’uomo che abbiamo cresciuto da sempre, nei compagni più intimi, quelli che hanno il compito di raccogliere l’ultimo respiro, fino alla fine.

Si muore in casa, in guerra, in viaggio oppure si vive nelle cose che continuano a vivere. Vivere, abitare, educare, costruire, coltivare, amare. “Lasciatemi partire, lasciatemi andare, lasciatemi, ma non dimenticatemi e ricordatemi con il sorriso sulle labbra”.

Siamo la consapevolezza dell’esistenza e la prova della partenza.

Siamo e non siamo, come le pagine di un libro letto con passione; più andiamo avanti e più c’è la consapevolezza che i fogli stanno per finire, vogliamo rallentare per prolungare la felicità ma nulla impedirà l’arrivo dell’ultima pagina, in fondo al libro. Forse è proprio la metafora del libro, l’essenza della nostra esistenza umana. Un racconto scritto a più mani che leggiamo insieme agli altri per consegnarlo alla storia.

Una fragilità – quella umana – che merita rispetto, onore, riconoscenza: sia quando siamo un vulcano, sia quando torniamo foglie viaggiante nel vento. Quando la carne rovina verso la decadenza, quando lo sguardo si perde nel vuoto, quando la voce si spegne per sempre. In quel momento, siamo pura trascendenza, memoria condensata, libertà ritrovata. Allora torniamo a essere foglie parlanti, foglie pensanti, tracce nel cielo. Torniamo alla terra per guardare gli orizzonti tersi, verso la linea dell’infinito.

Nella nostra esistenza provvisoria, spesso corriamo senza smettere di correre.

Poi ci fermiamo per un attimo, lungo uno dei tanti sentieri, vicino al corpo esausto e senza respiro, di qualcuno che significa qualcosa per noi. Ci fermiamo, insieme ad altri, quasi attoniti. Ci fermiamo intorno alla salma, alla foglia adagiata sulla terra bagnata. Come avviene in autunno, quando tutto sembra rosso sangue intorno a noi. Ci fermiamo e raccogliamo le lacrime per versarle sulla pietra bianca. Come in processione, tutti insieme, portiamo una di noi, fin dentro il sarcofago per l’ultimo saluto. Lo facciamo come comunità, come fratelli, come compagni di viaggio, come sacerdoti e sacerdotesse, come alleati, come foglie, fragili e insicure.

Una scuola ha perso un pezzo, una scuola ha perso una parte, una scuola ha perso un’amica. Lasciateci piangere questa volta, anche in silenzio, nascosti da un fazzoletto, ma lasciateci piangere. Torneremo ad educare, ma oggi abbiamo perso un pezzo di noi, a quella famiglia che noi chiamiamo “scuola”.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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