Trasformare lo spazio: la grammatica del progetto urbano per nuovi paesaggi e nuove felicità

L’ambiente che ci circonda, quello che viviamo e abitiamo, è il campo di sperimentazione dell’uomo. Luoghi, percorsi, mete, limiti e confini che cerchiamo di modellare, plasmare e trasformare, per sancire – ancora una volta – il nostro potere sulla natura che imitiamo o copiamo, fino a invaderla con il nostro più potente artificio: la città – coltivata e costruita. An-bauen (coltivare) e Aus bauen (costruire) nella lingua tedesca chiarisce l’idea e la corrispondenza.

Andiamo oltre, sfidiamo gli spazi interstellari, immaginifici e quelli del metaverso; come sempre tentiamo di connettere questi artifici policentrici – quindi la città – all’idea del divino, attraverso l’infinito mondo dei simboli. Orientamenti, giaciture, forme e misure; ridondanze e trasparenze, allineamenti e corrispondenze; iconografie e liturgie. Un palinsesto di azioni che scavano, adagiano e più in generale producono manufatti per rispondere alla primordiale necessità dell’uomo: “abitare” (Christian Norberg Schulz).

Il nostro compito – etico ed ecologico – è quello di aggiungere o sottrarre artifici, per restituire nuovi paesaggi e nuove opportunità di felicità. Senza una teologia condivisa del progetto della città rischiamo solo di sovrapporre insuccessi e generare relitti interstiziali. Progettare lo spazio – alle diverse scale – significa pensare alla terra (la porzione di spazio da trasformare) come “una casa comune” (Papa Francesco). Ma quali strumenti possiamo utilizzare per governare questi processi complessi? Come per una lingua da imparare, serve un metodo e una strategia didattica per capire le cose da “fare”. Come per una lingua abbiamo bisogno di studiare la grammatica, il lessico e praticare la conversazione; dopo possiamo uscire per strada a parlare con la gente, per comunicare un’idea che non può prescindere dalle precondizioni culturali dei luoghi.

Esiste, quindi, la grammatica del progetto urbano fatto di norme e analisi, come armatura di supporto, come l’alveo di un fiume, come la mappa di un viaggio. Un insieme di norme che regolano le nostre azioni principali. Quelle del progetto, quelle della misura delle cose. Insiemi di assiomi e paradigmi, dogmi e precetti che ordinano e controllano le nostre pulsioni e riconducano l’emozione all’interno di una regola. Come dire, “amo l’emozione perché corregge la ragione e amo la ragione perché corregge l’emozione” (George Braque). Occorre quindi acquisire – preventivamente – la pratica della norma e quella dell’analisi. Che significa estrapolare dall’atlante enciclopedico delle regole, quelle che possono curvare meglio e coerentemente il nostro agire sullo spazio fisico, estrapolare dai big dati quelli necessari per capire, discretizzare e sintetizzare per orientare le scelte. Una pratica paziente e silente, ma utile, per essere coerenti ed efficienti. Una letteratura aspra ma necessaria.


Esiste anche il lessico del progetto urbano che colleziona modelli e tipi. Forme che si ripetono verso l’orizzonte e verso il cielo. Modalità di occupare il suolo, di raccogliere la luce, di conservare l’energia, di organizzare la vita di tutti i giorni. Un linguaggio fatto di materia e relazioni. Lungo un crinale, a confine di una valla, secondo le giaciture della natura. Perché ancora una volta la natura ci offre lo spunto per capire. A corte, in linea, a torre, a scacchiera, a rombo, a cerchio. Infinite combinazioni di forme essenziali che determinano la complessità. Dalla scala domestica fino alla più ampia molecola abitativa. Anche per lo spazio aperto come strade, piazze, corti. A giardino, lineare, per saturare, diradare, polverizzare o ricucire.

Esiste, oltre quanto detto, la conversazione, fatta di racconti ed esperienze. Una letteratura che attinge all’arte, all’antropologia, alla sociologia, all’ingegneria. Un mondo spesso immaginifico che ha descritto la città, le sue infinite rappresentazioni nel tempo e nello spazio. Uno strumento di conoscenza che diventa intimo e profondo, un palinsesto di racconti – dai mille linguaggi – che descrivono, narrano, rappresentano lo spazio e la sua trascendenza. Una modalità indispensabile per poter immaginare la metamorfosi dell’ambiente, per costruire un nuovo paesaggio. Ma dentro questa dimensione c’è l’esperienza che abbiamo maturato in altri luoghi, le soluzioni trovate e sperimentate, dai grandi modellatori di città: Le Corbusier, Ildefons Cerdà, Ippodamo da Mileto, Arturo Soria, Ebenezer Howard, Italo Calvino, Vitruvio e ancora la restanza, la resilienza, la sostenibilità, l’eticità e la città policentrica e di prossimità.

Se abbiamo imparato la grammatica, il lessico e la conversazione urbanistica, possiamo immaginare di progettare una città, a partire dalla definizione delle strategie, per sperimentare i progetti da cui farne derivare le norme (Bruno Gabrielli). In un continuo pendolarismo di processo che ribalta la sequenza, ripartendo dalle norme, che generano progetti, che consolidano strategie. Un’idea per consolidare la disciplina. Un tecnicismo che si arricchisce di umanità e di spiritualità. Un modo di pensare la città – o una sua parte – come un reticolo di luoghi, necessari per rendere felice una comunità. Imparare un linguaggio (urbanistico o architettonico) significa trasformare l’insieme di parole (tutte uguali) in poesia, attraverso una successione di suoni che diventano musica, governando la creatività, riconducendola al logos cosmologico. Una nuova sfida, una nuova meta, un nuovo laboratorio di metabolismo urbano. Una traccia di esplorare per “fondare” nuove città.

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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