Tornare è un po morire.
E’ lasciarsi indietro il profumo della città, i suoi colori, le forme che disegnano lo spazio urbano e quindi quel muoversi dentro il suo labirinto ossessivamente. Dentro una “taberna” (treinta y uno), quella che ha accudito con un sorriso la solitudine del viaggiatore: qui per scrivere l’ultimo capitolo di questa storia.
Madrid è tornare a casa, ritrovare ogni cosa al suo posto, anche se tutto si trasforma inevitabilmente. Tornare è necessario, indispensabile. Come una catarsi, un rito di iniziazione per ritrovare se stressi. Per incontrare quelle persone che hanno scolpito la tua vita, per rivedere quei luoghi che hanno cambiato il tuo sguardo, per capirne la lingua ancora una volta.
Marga, Pilar, Angel, (Eureka) custodi e incubatori di esperienze formative. Javiera e il suo parlare italiano che conforta alla sera. Pochi giorni ma sufficienti per restare incagliati nella profondità della malinconia. Poi Alberto Campo (il maestro), Jesus Aparicio e Hector Elorza: come ritornare dentro il liquido amniotico, dentro quella madre che è anche padre, dove ritrovi le ragioni dell’architettura che senti tua, che cerchi ogni giorno, che è estetica ed etica nello stesso tempo. Ci sarà da approfondire questo tema.
Il viaggio è sempre terapeutico, ti aiuta a crescere anche se pensi di essere già stato in quei luoghi.
Non è solo una questione di apprendere una lingua – lo spagnolo – che senti scorrere nelle tue vene, non è solo una questione di tecnicismi – erasmus+ – ma di imparare vivendo, cercando nel labirinto della città, ogni occasione per ascoltare, per raccontare. Musei, concerti, librerie e caffetterie. La strada, la gente, quel flusso irrefrenabile che ti trascina, quel tavolino sulla “calle” che ti accoglie a tutte le ore del giorno, come se la gente di Madrid mangiasse senza sosta. “Desayuno, comida, cena e poi i concerti con quelli di Marina Lledò nello storico Caffè Central, che trasuda di jazz e blues da tutti i pori fino a tarda notte, fino a perdere i sensi.
El Prado, con quella overdose di arte storica, un viaggio nel nel viaggio, per ritrovare El Greco, Goya, Velasquez, Tiziano, Tintoretto fino a sfiancare gli occhi. Ma resta una consapevolezza, quella di voler educare gli altri a vivere i musei con più semplicità. Passeggiarci dentro, per godere l’arte in purezza, senza dover essere per forza critici d’arte o storici o artisti. Per fermarsi davanti a quelle opere che ci lasciano senza fiato, all’improvviso, piene di interrogativi, di misteri. Non importa, abbiamo educato il nostro occhio e la nostra anima alla “venustas”.
La Caxa Forum è sempre una sorpresa.
Improvvisamente appare ai nostri occhi, dopo quella passeggiata nella “calle de las Huertas” che ci fa scivolare verso El Paseo del Arte; un concentrato di musei e luoghi iconici. La Caxa appare sospesa, come per magia. Si lascia attraversare diventando spazio pubblico, luogo per la città. Incanta come la gente la viva semplicemente, per giocare a palla con “los niños” (bambini) fino a tarda sera. L’edificio è, esso stesso, un’opera d’arte che oscilla tra il design e il disegno urbano, passando per l’architettura. Dentro, le esposizioni della cultura egiziana e quelle di Tesla con le sue scoperte nel campo elettrico. Overdose di meraviglie, e quello che più colpisce è il pubblico che frequenta questo luogo speciale, ogni possibile età, condizione sociale e culturale, tutto il giorno fino a notte. Questo è veramente importante. Fruire di questi luoghi educa le gente comune, è obiettivo politico e civico.
Il Reina Sofia è il sarcofago della Guernica di Pablo Picasso. Ma contiene tesori inattesi: arte moderna e contemporanea che straripano di esperienza culturale. C’è persino una narrazione del periodo “franchista” che non soffre di imbarazzi politici e anzi è l’occasione per guardarsi dentro. Un palinsesto infinito di sollecitazioni che cambiano le prospettive delle cose. Un’immersione nell’arte totale, quasi una terapia. Sembra di camminare sospesi tra Breque, Dalì, Serra, Max e l’elenco non finisce più. Gli occhi impazziscono e le emozioni accelerano i battiti del cuore, viene voglia di restare per sempre dentro quella basilica sacra, quel tempio dell’arte e per questo si esce a fatica.
Poi piazza Sant’Anna, Porta Sol, Calle Preciosa, calle Arenal (dove ogni giorno incontro i miei compagni di corso). Ma la solitudine ha bisogno di sacrifico, di impegno e determinazione per non perdersi. Forse serve leggerezza, ironia, un pizzico di sfacciataggine per sopravvivere. Allora scrivere, disegnare e fotografare diventano compagni di viaggio. Modalità funzionali alla narrazione, per esplorare, per costruire una nuova memoria. Dopo una settimana, sento questa città ancora una volta una casa accogliente. Un luogo dove tornare, per scoprire. Per questo lascio sempre qualcosa di incompiuto, per avere il pretesto per tornare a Madrid.
“Volver” (tornare) è quello che faremo, verso quell’isola che la “madre terra” e verso questo luogo che è culla dell’anima. Volver e ri-Volver.
Il viaggio è solo il pretesto per rimettersi in gioco, per provare a misurarsi ancora una volta. Forse, un po’ tutti dovremo viaggiare per rischiare, per provare, per capire, se siamo ancora vivi oppure se ormai siamo solo parte di un ingranaggio arrugginito. Ma tornare serve essere anche per contaminare le terre di origine, i luoghi dove viviamo abitualmente, per trasferire esperienze, modi di fare, per arricchirci a partire dalle differenze culturali di cui abbiamo goduto. Come dice Kostantino Kavafis – nella sua Itaca – non importa dove andiamo, o la bellezza della meta, ma quello che viviamo durante il viaggio e per questo credo che ogni istante di questa settimana è stato come visitare i “porti fenici” per godere di “spezie preziose” senza aver paura dei Lestrigoni. Il viaggio è evolversi culturalmente, è capire gli altri e se stessi. Ora quei due professori venuti in Spagna per imparare, tornano più consapevoli e forse più motivati.