I cambiamenti climatici e quindi la mitigazione degli effetti climatici sull’ambiente sono uno dei temi più complessi nelle agende politiche di molti Paesi, specie quelli più industrializzati. Tema che ha implicazioni in moltissime discipline scientifiche e umanistiche.
L’arte del costruire, l’architettura e più in generale la cultura dell’abitare sono tra i settori più sollecitati nel dibattito attuale. Dalle sperimentazioni di Hassan Fathy ed Emilio Ambasz, fino alle visioni di Kengo Kuma e Stefano Boeri.
Servono risposte tecnologiche, tipologiche e sull’uso dei materiali. Serve un codice etico che definisca meglio il concetto di sostenibile (nella sua interpretazione più ampia) e che possa essere un riferimento per individuare nuovi percorsi normativi, sia in chiave edilizia che fiscale. La ricerca dovrebbe orientarsi verso questi obiettivi, cercando di individuare sistemi costruttivi e tipologici a basso impatto tecnologico ed energetico. In pratica dobbiamo spendere meno (denaro, energie, risorse, ecc.) per ottenere luoghi dell’abitare che rendano più comoda e funzionale la nostra esistenza puntando sulla qualità complessiva degli spazi.
L’architettura può offrire delle soluzioni interessanti, può determinare un cambio di paradigma che rimette al centro il progetto, la storia, l’uomo, la natura. Dobbiamo convivere con l’ambiente che cambia, che modifica le sue condizioni e impone un atteggiamento di “adattabilità” da parte dell’uomo. Aver delegato alle “macchine”, gran parte delle nostre esigenze climatiche per la necessità di vivere in un ambiente confortevole – fresco in estate e caldo in inverno – ha atrofizzato parte della pratica edilizia indirizzandola verso forme più semplificate.
Le normative e i media promuovono spesso gli incentivi (volumetrici, fiscali, procedurali) che esaltano l’uso di tecnologie ad alto costo, di produzione industriale e spesso in regime di monopolio. La stessa sperimentazione dei grandi progettisti punta su soluzioni – affascinanti, emozionali, innovativi, futuristici – che non diventano accessibili alla gran parte della popolazione. Alcune esperienze in Africa e in America Latina sono più utili per individuare percorsi di sostenibilità vera. Andrebbero seguiti con attenzione per esportare anche in Europa i risultati ottenuti.
Una delle tante contraddizioni – spesso ripresa in altre occasioni – è quelle riferita all’uso delle grandi vetrate nelle facciate degli edifici, che in ambiente “Mediterraneo” sarebbero quasi un suicidio. La storia ci presenta l’esempio dell’abate Sugerio di Saint-Denis e il suo deambulatorio vetrato e Michelangelo con lo studio planimetrico per San Giovanni dei Fiorentini. La storia ovviamente non come repertorio filologico da “copiare” ma come spunto analogico da “imitare” seguendo le tracce della modernità. I due esempi di cui sopra sono emblematici e rappresentativi di due modi diversi di rapportarsi con la luce. Il primo è l’antesignano dell’Internacional Style nell’architettura moderna e il secondo è la lezione sulle modalità di governare la plasticità del paramento murario per ruscellare la luce. Due modi di gestire il rapporto tra interno ed esterno che andrebbero considerati nella pratica di oggi. La modernità non può prescindere dalla storia. Speriamo di non essere fraintesi per cultori del “passatismo”.
Alcuni esempi possono essere chiarificatori. Prendiamo l’isolamento a cappotto, quello che oggi è di moda e che molti usano per il famosissimo “super bonus”. Un sistema che potrebbe essere sostituito da una parete ventilata con l’uso di telai realizzati con canne palustri. Produzione locale, uso di materiale a basso costo, manutenzione dei fiumi, bassa incidenza dei trasporti e possiamo continuare ancora. Ma non basta, la premialità per l’uso di sistemi passivi (quelli che usano le forme dell’involucro edilizio per canalizzare l’aria e condizionare in maniera naturale) come facevano gli arabi prima di scoprire il petrolio e il condizionatore a palla, sarebbe necessaria e impellente. C’è un’ampia letteratura che andrebbe approfondita e applicata sia nelle nuove costruzioni (sempre meno) che nella rigenerazione delle vecchie.
Non possiamo tralasciare l’uso di alcuni materiali e di tecnologie edilizie: legno, acciaio e calcestruzzo. L’uso delle diverse tecnologie deve dipendere dalle opportunità che offre il mercato, dalla disponibilità e dalla convenienza. L’uso dell’uno o dell’altro solo per mode rischia di dopare il comparto illudendo l’utente di una sostenibilità finta e sulla carta. Insomma, ancora una volta, come sempre è la saggezza e la competenza del progettista – direi anche l’eticità – che fa la differenza. Recentemente si poneva sui social la questione delle pareti in metallo esposti al sole, che producono calore per irraggiamento nell’ambiente domestico o urbano circostante. Forse sarebbe meglio l’uso di gelosie di legno?
Si potrebbe disquisire ancora ma la sintesi è che sostenibile (in generale e in architettura) significa trovare un equilibrio tra costi e benefici, tra localismi e globalismi, tra uso tradizione e innovazione, tra storia e modernità. Ecologia di sistema. A cosa serve realizzare un intervento presentato come sostenibile, perché abbassa i consumi di Co2 e per realizzarlo si distrugge il fondale del mare, se si consuma suolo, si abbattono alberi, si offre al solo mercato di lusso, si usano tecnologie complesse in esclusiva di pochi, utilizzando materiali esotici e costosi e il risultato finale è solo un prototipo che non troverà applicazioni diffuse? Ci sta anche questo tipo di esperienza ma la ricerca deve guardare verso gli orizzonti dell’ecologia di sistema a tutte le scale. Quella pratica che usa la gente comune.