Il tema ricorrente in molti dibattiti di questi giorni – tra Pnrr e post pandemia – è quello della rigenerazione delle aree interne.
In verità lo è da molto tempo e tanti sono i contributi che provengono dalle diverse discipline, come il recente lavoro dell’antropologo Vito Teti edito da Einaudi dal titolo eloquente: la restanza.
Ci sarà modo di approfondire ampiamente i contenuti di questa pubblicazione del 2022 all’interno della “Scuola di Paesaggio Emilio Sereni” che si terrà a Troina dal 7 al 10 settembre di quest’anno, diretta da Fausto Carmelo Nigrelli dell’Università di Catania.
Tra le questioni poste da Vito Teti, due sembrano utili per costruire una prima riflessione provvisoria: la prima sulla definizione di aree interne e la seconda sulle dotazioni minime nei territori di margine che si intendono rigenerare.
Serve da subito chiarire che “aree interne” non significa esclusivamente quelle parti di territorio più interne rispetto alla costa; non significa solo i “paesi” abbandonati e spopolati. La definizione è più ampia e comprende quelle categorie spaziali e sociali caratterizzate dalle marginalità e dalla perifericità. Quindi possiamo trovare aree interne anche dentro le città, nei suoi interstizi, tra i ruderi della città storica e archeologica, tra le metastasi delle aree produttive, nei limiti-bordi della città costruita e coltivata.
Questa ulteriore specificazione di area interna è necessaria per non generare approcci metodologici che finiscono per romanticizzare porzioni di territorio che diventano di fatto delle “riserve”. Infatti, uno degli errori fatali nei processi di rigenerazione è quello di “recintare” le parti invece che di trasformarle in costellazioni aperte. Proprio l’asfissia, sul piano delle relazioni nelle aree interne e quindi la perdita di identità e di opportunità, sono una delle maggiori cause di marginalizzazione dei territori. Non servono politiche eclatanti come il trapianto demografico o come la spettacolarizzazione delle culture indigene – agricole, urbane, sociali – che diventano pratiche per un esercizio di moda.
Si deduce da ciò che il campo d’azione della “rigenerazione” è più ampio, più prossimo, più diffuso e che la visione deve privilegiare sempre un pendolarismo continuo tra porzione e costellazione, tra disciplina e campo largo, tra tecnicismo e umanesimo, tra innovazione e conservazione.
Una particolare attenzione deve essere rivolta al concetto di dotazione territoriale, di servizi di prossimità, di priorità funzionali. Vito Teti pone la questione della formazione, dell’accessibilità e della salute. Se vogliamo recuperare le aree interne: paesi abbandonati, periferie degradate, margini urbani, relitti culturali, centri storici diruti, campagne in fase di desertificazione, ecc. non possiamo che prevedere la presenza di scuole, ospedali e mobilità pubblica. Per fare questo bisogna uscire dalla logica asettica dell’equilibrio dei numeri, dei parametri e degli standard. Quella necessità di spalmare su tutto il territorio dati statistici e modelli previsionali di sviluppo. Bisogna rinunciare a qualcosa, pagare un costo per non lasciare nessuno indietro (era uno degli slogan della fase pandemica).
Se i nati in un determinato paese sono sotto gli standard previsti dai modelli economici si elimina il reparto nascite della struttura ospedaliera – qualche volta l’intera struttura sanitaria. In questo modo si spinge la popolazione che “resta” o dovrebbe restare, verso le urbanità più competitive e non serve a nulla regalare con un euro le abitazioni che si spopolano piano piano. La stessa cosa vale per le scuole, almeno fino alle medie. Ogni comunità – anche la più piccola – ha diritto alla formazione scolastica e aggiungerei anche alle sollecitazioni culturali (biblioteche, mostre, incontri, ecc.). La scuola, più in generale i presidi della formazione culturale ed etica (le parrocchie per esempio) sono un pre-requisito per la rigenerazione in ogni possibile parte di territorio afferente alla definizione spaziale e tipologica di area interna.
L’accessibilità – intesa nel suo significato più ampio – è il terzo vettore strategico per parlare di incentivare la pratica del “restare” nei luoghi. Accessibilità significa, non solo raggiungere fisicamente le aree interne, ma accedere ad alcuni servizi essenziali: internet, mercato, sicurezza. Raggiungere i luoghi sempre, ovunque, pubblicamente, per tutti. Se la domenica (per fare un esempio) un paese non è raggiungibile con i mezzi pubblici, quel luogo rischia di essere estromesso dallo sviluppo e priva le aree sviluppate di godere delle diversità che contiene. Un esempio concreto: una città come Paternò, dentro la città metropolitana di Catania, che non è più servita dai mezzi pubblici nei giorni festivi e nei feriali registra una sempre più diminuzione delle corse che escludono il servizio di tarda sera e notturno, non produce altro che un processo irreversibile di desertificazione demografica. Le nuove generazioni si spostano irreversibilmente verso la città polo, implodendo il suo centro.
Se vogliamo parlare coerentemente ed efficacemente di rigenerazione, dobbiamo ripartire da questi temi: formazione, sanità e accessibilità. Costruendo, a partire dalla necessità di offrire servizi di prossimità (raggiungibili in massimo 15 minuti a piedi), un modello flessibile che possa adattarsi alle differenti necessità dei luoghi. La logica della media matematica diffusa in maniera uniforme e acriticamente non ha dato buoni risultati come la politica degli standard urbanistici all’interno dei vecchi piani regolatori generali (oggi PUG). I nostri paesaggi contengono infinite “aree interne” che meritano nuove attenzioni e sensibilità multidisciplinari. La politica ha il dovere di essere concreta, di ascoltare i dibattiti come quello di Troina a settembre per saper agire; la politica – oltre le poltrone e le competizioni elettorali – ha il dovere di essere utile per ridare ossigeno ai territori che vivono con la testa dentro una busta di plastica colorata.