Chi stabilisce quale modello culturale, sociale, economico, è quello giusto? Chi costruisce questi modelli nel tempo e nello spazio? Usi, costumi, tradizioni? Come si stratificano per poi diventare modelli riconosciuti dalla collettività che sistematicamente cerca di scardinarli e disattenderli? Abbiamo strutturato schemi generali, normativi, religiosi, sociali, ecc. per poi seguirne le regole oppure infrangerle.
Ogni comunità, etnica, sociale, religiosa, culturale, si costruisce un’armatura normativa che la contraddistingue e la rende riconoscibile ad essa e chiama “tradizioni” l’elenco delle sue regole. Capita che le tradizioni di una comunità entrano in conflitto con un’altra o comunque non si realizzano i giusti allineamenti.
Estremizziamo il concetto. Un gruppo di ragazzi, abituati a mangiare la carne di cavallo in strada può entrare in conflitto con chi è abituato a prendere qualcosa nei pub del centro storico. Un esempio banale ma serve per capire che le “diversità” possono essere infinite e portatrici di pregiudizi e intolleranze. L’elenco potrebbe annoverare tanti altri esempi e in tanti campi della vita sociale di tutti noi.
Pensate a chi gioca per strada a palla, felice nel suo quartiere con la musica neo-melodica a palla e chi invece passa giornate nei campi di “padel” con l’aperitivo che chiude la serata. Due modelli diversi che si confrontano a distanza. Facile formulare giudizi di valore che generano perimetri. Immaginate quella bellissima dottoressa che beve negroni a bordo piscina, teletrasportata davanti al camion dei panini sull’acropoli della città di Hybla. Per fare un esempio.
Credo che questi esempi possano bastare per introdurre un tema:
la città è la sovrapposizione di innumerevoli modelli e (garantito il rispetto delle norme generali di convivenza) questi possono convivere anche simultaneamente. Cioè la città nella sua più ampia definizione può e deve garantire ogni modello riconosciuto evitando la recinzione degli stessi. Magari trovando modalità di limite e di bordo più compatibili tra loro.
Un corto circuito può realizzarsi quando si prova a monopolizzare o peggio ancora a imporre un modello sull’altro. Spesso siamo noi stessi a rendere tutto “categorie” approvate o condannate. Se analizziamo le parti della città troviamo tante altre città che contengono altri sottosistemi che, metabolizzano, trasformano, curvano e innovano ogni giorno gli stessi modelli o matrici di base.
San Berillo e Corso Italia a Catania, Scala Vecchia e Piazza Umberto a Paternò e via così per ogni città. Molti “abitanti” si sentono più rassicurati da una parte e non dall’altra. Quando straripano da un quartiere all’altro sembra quasi che vadano all’estero, come se ci volesse il passaporto. Siamo così diversi da guardarci persino con sospetto. Ovviamente il linguaggio comunicativo (verbale e non verbale) stride, costituisce un brand, un marchio di riconoscimento che può determinare conflitti. La sgommata e l’impennata (che non rispetta le norme generali della comunità) determina un conflitto tra le parti, come guardare dall’alto in basso. Dobbiamo abitare la città, evitando la sindrome da “ghetto” ebraico.
Immaginiamo una città fatta solo da musei, da pinacoteche e da librerie. Immaginiamo una città fatta solo di camion dei panini, carne di cavallo e musica napoletana. Immaginiamo una città fatta solo di chiese, di caserme, di pub, di scuole, di ospedali. Stiamo descrivendo un paradosso per dimostrare che le città devono accogliere le diversità e costruire il senso più profondo dell’inclusione perché ogni modello che si è stratificato (rispettoso delle norme generali) è portatore di un patrimonio culturale e sociale. Ma bisogna governare i metabolismi urbani e non subirli.
La scuola più in generale, quella pubblica in particolare, è il luogo della trasfusione, dello scambio di stato, della compresenza. Non frequentare la scuola significa amplificare le differenze, allontanare le diversità, seminare i conflitti. Non solo la scuola ma tutti i presidi educativi come lo sport, il volontariato e le parrocchie.
Quando andiamo all’estero, nei paesi che definiamo anglosassoni o scandinavi, abbiamo la sensazione che tutto sia ordinato, tutto al posto giusto:
colori, forme, sequenze, servizi. Un modello rassicurante, un’isola felice, ma sarebbe un errore pensare solo a questo. Siamo di fronte a un modello diverso, legato a quella cultura, a quel modo di “abitare” e di fare città. Alcuni di quei dispositivi sono esportabili e sarebbe utile farlo ma non tutti, non integralmente.
La bellezza del genere umano è proprio la compresenza di esperienze culturali diverse e la bellezza sta proprio nel conoscerle e non nella necessità di emularle o modellarle a nostro piacimento. Quando pensiamo di sostituire un modello con un altro forse commettiamo un errore, diversa cosa è curvare, innestare, ibridare, lasciando passare quella parte dell’innovazione che produce benessere e felicità.
Migliorare le condizioni di prossimità. Saper guardare oltre per raggiungere la condizione di qualità. Senza fare le barricate come quelli che invece di “trasformarsi” resistono con arroganza. Serve incontrarsi e non arroccarsi sulle idee.