Una causa di diritto penale. Marco Tullio Cicerone contro Gaio Verre, siamo nel 70 a.C. a Roma, dinanzi al tribunale per le concussioni.
Il reato contestato a Verre – governatore della Sicilia, dal 73 al 71 a.C. – è di “pecuniis repetundis” cioè di concussione. L’imputato è solo il senatore Verre ma quello che Cicerone individua è un sistema complesso, diffuso e organizzato di illegalità che impegna molti personaggi a lui vicino e che lo collaborano nella gestione degli affari sporchi in Sicilia come se fosse, ante litteram, la mafia dei nostri giorni. Il senatore, nominato pretore con poteri proconsolari, governava anche militarmente la “prouincia” che gli era stata affidata, avendo la possibilità lui stesso di nominare parenti e amici al suo seguito sempre a carico del contribuente. Donne, denaro e potere potevano essere nelle sue mani e al suo servizio.
Durante il suo mandato Verre fece di tutto.
Approfittò della legislazione vigente sulla vendita del grano per arricchirsi e vessare i contadini, i produttori e chiunque non fosse organico al suo disegno criminale. Fece sue molte donne, mogli di uomini che ricoprivano ruoli chiave nell’economia dell’isola; mandò in rovina diverse famiglie, privandole di tutto; speculò ai danni del Senato Romano, facendo la cresta sui tributi; riscuoteva le tasse per conto di Roma che erano circa il dieci per cento del raccolto – in natura o in denaro – ma nella realtà la gente di Sicilia pagava molto di più. Qualcuno, venduto il raccolto, poteva persino trovarsi in debito con il compratore per colpa di un sistema luciferino di quotazione del grano che era gestito dallo stesso governatore.
Un sistema finanziario che nulla aveva da invidiare con i giochi di borsa di questi tempi. Ma non bastava, aveva una sfrenata passione per l’arte e considerava sue le opere di proprietà altrui. Prasselite, Mirone e Policleto erano i suoi artisti preferiti oltre a stoffe e anfore preziose, argenti e monili, persino oggetti sacri saccheggiati nei templi; raccolti da ogni parte dell’isola per poi accatastarli nel suo palazzo, nella città da dove controllava ogni cosa, la meravigliosa Siracusa.
Apronio era uno dei suoi uomini più fidati,
una specie di esattore delle tasse, che concretamene girava per l’isola per raccogliere ogni ricchezza a discapito della povera gente e con lui una “bella” squadra di “bravi”. Estorsioni, ricatti, vessazioni, umiliazioni e brigantaggio. Una politica dell’arricchimento personale e per pochi che rovinò e fece piombare nella recessione più profonda l’intera Sicilia. I contadini cominciarono ad abbandonare la terra perché non era più conveniente coltivarla, era quindi meglio lavorare per i grandi proprietari che potevano (non sempre) gestire le angherie di Verre. L’isola fu derubata e saccheggiata, resa improduttiva e la rabbia delle città era immensa infatti sessantasei città siciliane si costituirono parte civile e incaricarono per la difesa dei propri diritti proprio Marco Tullio Cicerone, una specie di avvocato-investigatore all’americana.
Cicerone, indagò per cinquantacinque giorni in Sicilia, facendo circa mille chilometri alla ricerca di prove per inchiodare il governatore corrotto.
Tra mille difficoltà e tranelli, agguati e falsi testimoni. Una corsa contro il tempo per rispettare le procedure concesse dal tribunale di Roma. In effetti gli bastò il primo dibattito per fare condannare Verre che non aspettò la conclusione e finì per questo i suoi giorni in esilio, circondato dalle sue ricchezze e dalle opere d’arte che aveva rubato alla Sicilia. Ma Cicerone non volle rinunciare alla monumentalità della sua opera e scrisse comunque le parti del suo dibattimento, anche se ormai aveva vinto la sua battaglia. L’esilio come un patteggiamento per ridurre la pena.
Alcune considerazioni andrebbero fatte.
Non ci permettiamo di entrare nell’esegesi del testo, cosa che lasciamo agli specialisti ma la lettura dei documenti ci aiuta a riflettere. Verre precede il metodo mafioso nella gestione dei territori di alcuni millenni; devasta l’economia dell’isola e mette le basi per una depressione complessiva – culturale, sociale e produttiva – che si traduce nell’atavico fatalismo di un popolo che tutto subisce senza reagire; incentiva l’esportazione clandestina delle opere d’arte e dei reperti archeologici anche profanando templi e santuari; terrorizza produttori, contadini e le loro famiglie fino a fargli desiderare di andare altrove, oltre l’isola. La Sicilia nelle mani del Governatore Romano, poi dei feudatari Normanni, dei banchieri Toscani e Catalani e dei Vice Re spagnoli, se aggiungiamo Garibaldi, Cavour e i petrolieri degli anni ’60 -’70, abbiamo chiuso il cerchio. Non è vittimismo ma la consapevolezza che per cambiare il futuro dobbiamo conoscere il passato, senza idealismi e fatalismi.
Nelle Verrine, troviamo anche tante storie curiose, per esempio la ricchezza di Centuripe sul piano della produzione agricola e delle risorse fondiarie che andavano oltre i confini comunali e comprendevano le terre di Lentini. La valle del Simeto che viene chiamata valle di Lentini.
Cicerone ci elenca i delegati al processo che le città inviano con fatica e tra questi Artemidoro, che viene proprio dall’odierna Paternò, luogo in cui viene appeso Ninfodoro (un contadino vessato) ad un albero di ulivo, nel foro della città, su ordine di Apronio per un suo capriccio. Cicerone passa proprio dalla città di Aetnae-Hybla e qui probabilmente dimora se dedica a lei e a Lentini una parte significativa della sua descrizione dei fatti. Verre ruba e porta via molta argenteria presente nell’isola e viene da chiedersi come non sia riuscito a portare anche gli argenti di Paternò, quelli esposti ancora a Berlino, forse perché di produzione più tarda (argenti che dovrebbero tornare presto, come tanti altri reperti che stanno tornando in Sicilia).
Ma Gaio Verre si circondava degli “schiavi di venere”, una specie di gruppo di “paraboliani” pagani che avevano un potere immenso e di fatto erano il suo braccio armato; poco si sa della loro composizione ma se pensiamo che la città di Hybla era un centro importante per il culto di Venere, c’è da farsi qualche domanda, riflettendo anche sul fatto che la città ospitava una delle sedi per i processi (conuentus) insieme a Siracusa, Marsala, Palermo, Agrigento e Messina; per questo Apronio opera nel foro della città con aneddoti agghiaccianti.
A questo punto viene da chiedersi se non sia opportuno sostenere e incentivare lo studio delle Verrine di Cicerone – oltre le opere didatticamente più utili, già previste dai programmi nelle scuole siciliane (suggerire), e in particolare in una città come Paternò, che spesso è marginale ad alcune ricerche storiche che invece potrebbe riservare inaspettate sorprese. Dopo Platone, Federico II, Goethe possiamo annoverare anche Cicerone, con lo stupore di molti docenti di Latino in città. Contestualizzare lo studio del Latino – ove possibile – sfruttando “le verrine”, potrebbe essere una buona strategia per valorizzare il territorio e collocarsi nella storia. Allora aspettiamo una stele commemorativa per celebrare anche Cicerone a Paternò; quella Hybla- Aetnae che comincia finalmente a prendere forma nella percezione dei cittadini.
Un segnale importante, una prospettiva auspicabile. Non sarebbe male nemmeno se “le verrine” diventassero una produzione cinematografica, un film d’azione, un thriller storico per esaltare i paesaggi della Sicilia e l’orgoglio dei siciliani che si unirono tutti contro Gaio Verre per la giustizia. Magari un regista ci legge, con una produzione Rai o Sky.
(fonte: Cicerone, Il processo di Verre di Nino Marinone-Dionigi Vottero).