Paternò, Convento di San Francesco e Piazza della Regione: ricomporre un rudere, restaurare una fontana. La storia mai raccontata

Paternò, Convento di San Francesco e Piazza della Regione: ricomporre un rudere, restaurare una fontana. La storia mai raccontata

Da anni sento l’esigenza di raccontare il restauro del convento di San Francesco, sull’acropoli di Hybla, e per mille motivi non c’è stata mai l’occasione.

Prudenza, pigrizia, discrezione, forse anche altro. Una cosa è certa, lo spazio per la fantasia e l’immaginazione è cresciuto sempre più, anche attraverso molte “invenzioni” di seconda mano.

In questi giorni di riflessioni sulla ricomposizione della fontana di Piazza della Regione a Paternò, qualcuno ha fatto dei paragoni tentando di comparare le due opere e le differenti reazioni della gente.
Perché sulla fontana parliamo di restauro conservativo e sul monumento dell’acropoli invece di ricomposizione, limitando la parola restauro solo ad alcune parti di esso? Come mai ci scandalizziamo pubblicamente per il restauro della fontana e al contrario siamo costretti a subire i risultati – per alcuni discutibili – del cenobio francescano, ormai rudere?

Per evitare fraintendimenti, sono uno degli autori del progetto di ricomposizione e restauro del complesso conventuale di San Francesco, sulla collina storica.

L’ho detto. E adesso, citare tutti i suoi protagonisti è un dovere: Pasquale e Tania Culotta, Luigi Bosco e Giuseppe Guerrera. Ma la lista è lunghissima e comprende tante di quelle professionalità che non basterebbe questo spazio per citarle tutte. Archeologi, geologi, ricercatori, storici, analisti, rilevatori, ecc. Ma dentro ci stanno anche uomini e donne delle istituzioni pubbliche, come Fulvia Caffo, Pippo Di Mauro, solo per citarne alcuni, oltre a quel Giuseppe Gaeta che era la luce che illuminava ogni cosa. Forse oggi sono nomi che ci dicono poco ma erano e sono figure ‘mitologiche’, degne di grande rispetto e stima. Eppure nell’immaginario collettivo io sono l’unico autore (non merito tanto onore); spero che sia un equivoco risolto.

Quel progetto – San Francesco – non era il risultato di una scelta leggera e frettolosa.

Le indicazioni sulle modalità da seguire erano il frutto di un confronto culturale e politico serrato, condizionato dai risultati del concorso d’idee “Roccanormanna” svolto nel 2000, che aveva determinato la necessità di ricomporre il complesso ricostruendo le parti mancanti con interventi innovativi e contemporanei che enfatizzassero lo scarto temporale tra il rudere e l’intervento proposto. Oggi possiamo dire che attraverso un processo partecipativo (2000 -2003) abbiamo realizzato quello che la collettività chiedeva attraverso i suoi organi rappresentativi che hanno usato la modalità del concorso d’idee per capire cosa fare. Si chiama partecipazione e quello era solo il primo passo. Ovviamente il progetto è stato approvato dagli uffici tecnici comunali (ricordo le tante discussioni a cui partecipavano, anche in dissonanza, tanti personaggi che oggi sono diventati adulti). Poi la Soprintendenza e il Genio Civile, la Regione Sicilia per il finanziamento, fino al 2007, anno in cui si inizia con i lavori. I protagonisti di quei dibattiti erano giganti e io guardavo da dietro ogni cosa con rispetto.

Nel frattempo, studi, ricerche, ri-verifiche, e tanto altro. Ogni scelta era ponderata e verificata da tante di quelle persone che passavano giorni per capire quale piccola curvatura introdurre. Un’esperienza magica e altamente formativa. Gli scavi archelogici, le indagini sui materiali, l’università e tanto altro, tutti dentro quello che fu definito un “cantiere scuola”, aperto ai visitatori e agli studiosi, oltre che ai colleghi e studenti che desideravano capire cosa stava succedendo. Non mancarono i conflitti interni, aspri e duri. Uno su tutti, quello sull’opportunità di intonacare le pareti rimaste originali. Dopo discussioni interminabili, consulti scientifici, sempre collegialmente fu scelto di intonacare e sono convinto che era l’unica strada possibile. I fondi erano parziali e l’obiettivo era chiudere l’involucro per tutelarlo e predisporre il progetto di completamento, cosa che fu fatta con enormi sacrifici, vanificata dall’incuria degli anni a venire.

Ma durante i lavori, forse anche prima, le pressioni, per non avviarli o interromperli, erano asfissianti (persino con riti misterici dentro la fabbrica).

Fu dura ma il lavoro si concluse secondo i piani con il collaudo del 2012. Sono passati dieci anni. Ancora aspettiamo il finanziamento per finire i lavori. Ricordo ancora le attenzioni per la collocazione delle macchine termiche, quasi maniacale, fino a prevedere la mimetizzazione in caso di riprese con il drone (ringrazio Fulvia caffo per quella sensibilità, e le interminabili argomentazioni intorno al plastico di studio), oppure le discussioni con i colleghi e gli studiosi – sempre a porte aperte – nell’abside della chiesa dove avevamo approntato una mostra permanente dei disegni che si modificavano in progress. E poi le scoperte sul piano archeologico e la Venere di Perri (desidero chiamarla cosi perché senza Angelo Perri, forse nessuno l’avrebbe mai vista).

Dopo la conclusione: un premio come migliore opera da parte di Inarch-Ance nel 2014; articoli sulla La Repubblica e La Sicilia; pubblicazioni sulle riviste di architettura internazionali; mostre e convegni tra Milano, Madrid e Catania; ovunque tranne a Paternò, dove si organizzavano invece conferenze per parlare dell’opera senza gli autori. All’epoca sorridevo, ma capivo. Oggi comprendo meglio.

Devo ringraziare La Fidapa di Paternò per avermi permesso, nel 2017, di darmi la possibilità di raccontare questa storia straordinaria che incanta per i misteri, per il coinvolgimento, per le ricadute sul piano della ricerca e anche i giornalisti, che hanno dato voce, nel tempo, all’opera
Il lavoro che si era fatto era di ricomposizione – perché la partecipazione collettiva aveva chiesto questo – e perché l’opera non era più unitaria e ben conservata ma già mutilata dal tempo e dagli uomini, anche recentemente. Per la fontana è diverso e abbiamo già argomentato in tal senso.

Confondere quindi il restauro della fontana con la ricomposizione e il restauro di San Francesco è la prova che da 2010 ad oggi nessuno ha avuto la curiosità di chiedere – privatamente e pubblicamente – cosa è successo veramente in quel cantiere, sempre aperto e disponibile al confronto. Nessuno ha mai chiesto ai progettisti le carte per continuare coerentemente sul quel solco che con superficialità è stato bollato come inopportuno. Nessuno si è chiesto perché?

Ora restiamo in attesa delle evoluzioni, sperando che la stessa partecipazione che ha caratterizzato quell’esperienza sia anche oggi esercitata.

In caso contrario la collettività ha il diritto/dovere di sapere e capire e questo non è fare polemica ne tantomeno ledere la dignità deontologica di chi opera sul campo, semmai è la necessità di tutelare un bene comune dalle leggerezze di questi tempi troppo veloci e rapaci. Magari a breve si organizzerà un convegno dove possiamo condividere tutto questo e riconciliarci con tutti, usando le risorse disponibili invece di seppellirle.
Gli strumenti per fare le scelte strategiche in maniera condivisa ci sono, basta chiedere.

Fare architettura significa anche avere il coraggio di confrontarsi con gli altri e difendere a viso aperto – se si ci crede – le proprie scelte, questo ricordo di Pasquale Culotta, per questo lo ringrazio. Il mestiere dell’architetto esige un atteggiamento ardimentoso, pieno di coraggio, immaginazione, determinazione e capacità di ascolto.

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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