Cosa hanno in comune i pupi siciliani ed Elio Vittorini, anzi, meglio, Silvestro di Conversazione in Sicilia e i pupi siciliani? Sembrerebbe niente, lontanissimi nel tempo e nelle forme, nel messaggio e nel linguaggio.
Eppure. Eppure un’intuizione geniale di due artisti (uno pure “prufissuri” come viene invocato nella pièce), ha individuato delle contingenze, un filo conduttore che si dipana fra i secoli e porta Rinaldo, Orlando, il Guerrin Meschino e pure Gano di Magonza ad assistere alle vicende narrate nel più celebre romanzo dell’autore di Siracusa, e a sentirsi “affratellati” con l’antieroe vittoriniano.
Così gli eroi del teatro della tradizione popolare, accompagnati dalla voce narrante di Peppininu che fa da collante fra i due mondi, assistono alle scene che si succedono, frutto della trasposizione in forma drammatica della narrazione di Vittorini.
Il primo merito di questa operazione è quella di avere scelto questo capolavoro, il libro forse più complesso e affascinante tra quelli che hanno fatto “epoca” nel Novecento italiano. Un Romanzo, come recita il titolo stesso, costruito in forma di “conversazione” costituita da una serie di monologhi a voce alta e un dialogo aperto tra uomini, fantasmi, statue, in una galleria discontinua, in una inchiesta sul dolore del mondo.
La struttura narrativa si prestava già facilmente a questo tipo di interpretazione, ma Alessandro e Fiorenzo Napoli da sempre, da molte generazioni (proprio quest’anno si ricordano i cento anni da quando questa famiglia ha dato vita alla grande tradizione catanese dell’Opera dei pupi) concepiscono il teatro nella forma della più antica rappresentazione popolare che, nelle loro mani, è diventata coltissima.
Così Silvestro prende le forme di un pupo, così pure tutta la serie dei personaggi che via via il protagonista incontra, mossi dalle sapienti mani della compagnia Napoli e animati da voci ancora più abili, nella notevole difficoltà di dare voce, recitare al posto di un pupo mosso da fili. Una successione di scene, una serie di fotogrammi scorre davanti agli occhi dello spettatore su un piccolo palco sollevato mentre in basso i “pupi” classici, con le loro armature di metallo scintillante guardano e commentano gli episodi, sottolineando la loro comunione di intenti.
Perché nel lontano Medioevo da dove provengono loro e nella Sicilia degli anni Quaranta, l’uomo continua a soffrire del “dolore del mondo offeso”; e allora la medesima volontà di giustizia, la stessa ricerca di risposte, l’esigenza di difendere i deboli, li stringe in una catena solidale spinta dagli stessi “astratti furori”.
“Abbiamo voluto far incontrare questi personaggi immaginando che i nostri pupi assistano a una messinscena di Conversazione e intervengano durante lo spettacolo, facendo ciò che faceva il pubblico tradizionale” (nota di regia)
Come non pensare alla versione di Orlando che diventa “furioso” nelle mani di Ariosto?
In conclusione del romanzo, Elio Vittorini specifica, in una nota nella quale asserisce che la vicenda non è autobiografica, che “tutti i manoscritti vengano ritrovati in una bottiglia”. E allora, rimanendo nel magico mondo della fabula del teatro, crediamo che la bottiglia sia arrivata nelle mani di Alessandro Napoli, “u prufissuri”, magari in compagnia di Pippinninu, e abbia deciso di raccontarla così, creando un sistema di mondi paralleli e di linguaggi che si intersecano, un meta teatro letterario, intellettualmente raffinato e semplicemente diretto.
La riuscita magnifica di questa operazione la si deve alla bravura di tutti gli artisti: i cosiddetti parraturi: Fiorenzo Napoli, Davide Napoli, Agnese Torrisi Napoli e Salvo Musumeci del Teatro del Canovaccio; i Manianti : Giuseppe Napoli, Marco Napoli, Dario Napoli, Alessandro Napoli. Assistenti di palcoscenico: Roberta Laudani e Martina Sapienza. Fonica e luci: Giacomo Anastasi.